Il realismo metafisico di Dino Buzzati
di Sandro Marano
Dino Buzzati (1906 – 1972) è uno dei grandi scrittori del ‘900. Inizialmente sottostimato dalla critica, i suoi scritti continuano ad appassionare il pubblico. Quali sono le ragioni della scarsa attenzione dimostrata per lungo tempo all’opera di Buzzati? Il critico Matteo Contigliozzi ne indica tre: il suo “antisperimentalismo stilistico” dal momento che la sua prosa è sempre lineare, piana, di taglio giornalistico; il suo “essere e voler essere considerato un borghese tipico negli anni in cui Moravia si definiva borghese antiborghese”; e il suo “esser stato uno scrittore depoliticizzato in un periodo storico in cui era centrale nel dibattito culturale la figura dell’intellettuale engagé” (Il realismo stregato di Dino Buzzati, in “Il tascabile”, 20 luglio 2017).
Da parte nostra crediamo che quest’ultimo elemento, nel panorama conformistico della letteratura e della critica dal dopoguerra in poi, sia stato quello predominante. Lo stesso Buzzati dichiarerà allo psicanalista francese Yves Panafieu nel libro-intervista Un autoritratto, pubblicato nel 1971, pochi mesi prima della sua morte: «Di politica non mi importa niente. Durante la guerra, e anche prima, io facevo le stesse cose che faccio oggi. Tali e quali. Poi ho saputo che i miei colleghi, negli ultimi anni, s’erano organizzati nei movimenti clandestini. Io non me n’ero neppure accorto. Non badavo né agli uni, né agli altri, scrivevo».
Giornalista, scrittore, pittore
Per quanto riguarda la sua poliedrica opera ricordiamo che Buzzati affiancava l’attività pittorica a quella di scrittore e di giornalista: non a caso il primo graphic novel è il suo Poema a fumetti del 1969 e nel romanzo per ragazzi uscito a puntate sul “Corriere dei piccoli” e pubblicato in volume nel 1945, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, i disegni fanno parte integrante del testo. Sempre in Un autoritratto Buzzati confiderà in modo sorprendente: «il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie».I temi: lo scorrere del tempo e la solitudine
La narrativa di Buzzati ha al centro una tematica squisitamente esistenziale. Due sono i temi fondamentali: da un lato l’inesorabile trascorrere del tempo con l’attesa di qualcosa che non si sa ben definire e che si conclude con la delusione e con la morte, e dall’altro la solitudine ontologica dell’uomo.
In uno dei passi de Il deserto di Tartari Buzzati scrive:
«Non ci si può fermare un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma”! Si vorrebbe gridare, ma si capisce che è inutile: tutto fugge via, gli uomini, le stagioni,le nubi».
E descrivendo la fortezza Drogo, il protagonista, osserva:
«Lungo tutto il ciglione dell’edificio centrale, delle mura e delle ridotte, si vedevano decine di sentinelle, col fucile in spalla, camminare su e giù metodiche, ciascuna per un piccolo tratto. Simili a moto pendolare, esse scandivano il cammino del tempo, senza rompere l’incanto di quella solitudine che risultava immensa».
I due temi del tempo e della solitudine sono trattati per lo più attraverso il modo fantastico, in particolare nelle raccolte di racconti che si susseguirono nel corso della sua vita da I sette messaggeri (1942) a Le notti difficili (1971). È questo, per inciso, un altro merito di Buzzati che fu tra i primi a trattare questo genere in Italia. Ricordiamo peraltro che con i Sessanta racconti, in cui erano raccolti alcuni dei suoi racconti migliori, vinse nel 1958 il premio Strega.
Il surreale nei suoi testi si presenta nella quotidianità. È senz’altro vero che nello scrittore bellunese il ricorso al fantastico ha la funzione di «creare un contraltare» alla grigia e alienante vita dell’impiegato nella Milano del dopoguerra grazie ad «un mondo fiabesco, possibile e raggiungibile attraverso la fanciullezza» (Matteo Contigliozzi). Ma c’è da dire che il fantastico in Buzzati non è mai fine a se stesso, è sempre legato ad una tematica esistenziale. È quindi affatto pertinente la definizione della sua scrittura come realismo metafisico (Marcello Veneziani).
Il deserto dei TartariIl deserto dei Tartari, uscito per Longanesi nel 1940 è considerato il capolavoro di Dino Buzzati. È un romanzo esistenzialista che, a quanto pare, fu suggerito allo scrittore dalle lunghe e vuote attese durante il lavoro di redazione. La trama è piuttosto scarna. Giovanni Drogo un giovane ufficiale lascia la città alla volta della Fortezza Bastiani, un vecchio avamposto tra i monti che fronteggia un deserto da cui si teme l’invasione dei Tartari. Drogo pensa di poter restare là poco tempo, ma una sorta di malia lo incatena nella monotona ripetizione dei giorni e nell’attesa di un nemico che non si vede. Solo dopo che Drogo, malato e vecchio, è costretto a lasciare la fortezza, il nemico sembra dare finalmente qualche segno di vita. Ma è troppo tardi. La sua vita, senza avere concluso nulla, senza affetti veri, è giunta al capolinea:
«facendosi forza Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».
La fortezza e il deserto sono due straordinarie e potenti metafore della condizione umana: la prima rappresenta in qualche misura il proprio posto nella società con le sue regole, le sue costrizioni, la sua ripetitività, mentre il secondo rappresenta l’inutile attesa e la solitudine che sono iscritte nel destino di ciascun uomo. L’uomo nel romanzo di Buzzati è davvero, per dirla con Heidegger, una sentinella del nulla. Drogo incarna l’uomo moderno, inutilmente teso verso qualcosa che dia un senso al vivere e che però non si palesa e sfugge. A proposito del suo romanzo Buzzati osservava: «Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nell’esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva».
I luoghi e il mistero dell’esistenza
Sospeso tra sogno e incubo, tra amore per la vita e senso della morte, Buzzati ci induce a fare i conti con i grandi misteri dell’esistenza. Tra i luoghi più deputati all’apparire del mistero ci sono le montagne che sono presenti in quasi tutte le sue opere. In Barnabo dalle montagne scrive: «Le montagne sono nascoste ma si sentono vicine; sono immobili e solitarie, sprofondate nelle nubi». Le montagne sono simbolo della tensione verso l’alto, verso la trascendenza: «massimo simbolo della suprema quiete a cui l’uomo è tratto per vocazione e tentazione indicibile».
Il mistero dell’esistenza, così fortemente avvertito da Buzzati, c’introduce alla dimensione religiosa della sua narrativa. Occorre subito precisare che Buzzati, come dichiarava anche in Un autoritratto, non era credente, era lontano dai dogmi e dai riti del cattolicesimo. E tuttavia l’angoscia lo incalzava, avvertiva il mistero che ci circonda, ricercava appassionatamente un senso della vita senza trovarlo veramente. «La sua ricerca approda al mistero», scrive giustamente Ferdinando Castelli, ma a differenza di Gabriel Marcel, osserviamo, non fa il salto della fede, «il suo al di là ha il sapore di una bella favola». Lo scrittore bellunese lascia senza risposta l’interrogativo: «la morte è una fine o un inizio? Un uscio che immette in un altro mondo o che sconfina nel nulla? La realizzazione delle nostre speranze o il naufragio? Talvolta gli appare come la porta del nulla, altre volte come la rivelazione, sia pure opaca e incerta, di un altro mondo» (Ferdinando Castelli, Il problema religioso in Buzzati, in La civiltà cattolica, anno 2002, quaderno 3649).
Il grande ritratto
Era pessimista Buzzati? Rispondiamo con le sue stesse parole: «Sono quasi visceralmente pessimista. E pensare che non è che questo pessimismo mi sia nato da tristi esperienze. Eppure io ho avuto sempre questa sensazione, come se dovesse succedere qualcosa di triste e di brutto. Soprattutto se io sono in un posto tranquillo e silenzioso, come in campagna, ho come la sensazione che da un momento all’altro debba capitare qualcosa di catastrofico, non so, come un bolide, un meteorite, che piombi sulla Terra e la sfasci».
È questo pessimismo, questa inquietudine che spinge Buzzati a interessarsi alla cibernetica che negli anni Cinquanta compiva i primi passi. Nel 1960 pubblica un romanzo fantascientifico, Il grande ritratto, dove paventa la sostituzione dell’umano da parte della tecnica, anticipando timori e preoccupazioni attuali:
“Arriveremo al superuomo. Più ancora: al demiurgo, una specie di Dio. Questa, questa è la via per cui riscatteremo finalmente la nostra miseria e solitudine.”
“C’è da aver paura. A un certo punto sarà materialmente impossibile controllare tutto ciò che avviene in un cervello simile.”
“Precisamente. È quello che già avviene col nostro Numero Uno. Ma non c’è da preoccuparsi. Le premesse, create da noi, sono sane. Possiamo dormire i nostri sonni tranquilli.”
“E lui?”
“Lui cosa?”
“Dorme, di notte? Non si riposa mai?”
“Dormire propriamente no, direi. Sonnecchia, piuttosto. Di notte tutta la sua attività è attenuata.”
“Diminuite l’erogazione di energia?”
“No, no, da solo si acquieta, proprio come se fosse stanco.”
“E sogna anche?”
La montagna e Milano
L’amore per la Natura vivente e, in particolare per la montagna, lo ritroviamo in tanti suoi racconti, ma anche in articoli di denuncia. Sul Corriere della Sera, ad esempio, si scaglia contro l’idea di una funivia che avrebbe deturpato il paesaggio del Cervino (Risparmiare al Cervino lo scandalo di una funivia, 23 giugno 1951) e difende le Tre Cime di Lavaredo contro la proposta di costruire una strada (Salvare dalle macchine le Tre Cime di Lavaredo, 5 agosto 1952). E nell’ultimo suo scritto apparso sul Corriere della sera poco prima della morte si rivolge direttamente agli alberi che incrocia passando col treno: «Non volete rallentare un momento? Non volete spiegarmi il mistero?».
Buzzati non amava Milano, troppo caotica, troppo dedita al lavoro e al consumo, ma, vivendoci e lavorandoci, le era affezionato. Lo dichiara in un’intervista realizzata nel 1970 per la Rai a cura di Marina Como: «Milano è una delle più brutte città del mondo, ma siccome ci ho vissuto tutta la vita, è chiaro quasi tutti i miei ricordi sono attaccati a Milano, e quindi è la città a cui voglio più bene». Ma anche dentro Milano lo scrittore sentiva la nostalgia della montagna e di un’altra dimensione della vita. In un suo famoso dipinto raffigurava le guglie del duomo come cime di montagna.
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