L’agguato della tenerezza di Alessandro Cannavale, Besa, 2024
di Cosimo Rodia
La silloge poetica di Alex Cannavale contiene almeno due macrotemi, benchè le liriche non siano ordinate in sezioni omogenee.
Il primo è la consapevolezza del tempo che travolge affetti, volti, sogni: «La voce di chi parte/corre sulle dita dei salici»; «Addenta aguzzo il buio/i silenzi delle case vuote»; «Sulla terra erosa dai tarli/la mia memoria inciampa/senza trovare scampo/su una danza di lancette». E in questo movimento cieco e titanico, il passato rimane come traccia indelebile nella memoria, e i lemmi usati da Cannavale richiamano semanticamente quella perduta rotondità affettiva: il pane, la casa («Ricordo l’odore di casa/di tana e di pane buono»), la mamma («La resistenza gentile/di due scapole fragili»); il padre con il quale l’Autore innesca una sorta di transfert col figlio appena nato: «Il vento suona l’osso cavo/di una memoria tarlata,/si scioglie in aria ogni pena./Oggi mi tiene un sottile fiato./Sai? Un uomo col tuo nome/mi ha salvato/di pochi mesi appena». Il papà amato dal poeta è morto per una malattia incurabile, così attraverso il nipote compie il miracolo di salvare il figlio dalla stessa malattia.
L’infanzia del poeta è l’àncora, il mondo carico di senso che torna per promuovere un confronto con l’oggi disancorato; un confronto realizzato con un impressionismo memoriale, carico di retorica e di immagini effervescenti: «Nato su una crosta di pietra»; «Il tempo si tatua sulle nostre facce»; «Il tuo sorriso è un ricamo/vena d’avorio sull’anima»; Cannavale si abbandona spesso ad un uso spericolato di analogismo, non poche volte alogico e con esiti surreali: «Sul petto del buio»; «Scrivo perché mia madre,/il mare da cui provengo/mi ha messo un’onda nel braccio»; «Fiorire cadendo/nella ferita/d’un solo tramonto». A me pare che gli accostamenti originali, e a volte stranianti, siano comunque di ordine fonico più che semantico, ad ogni modo prevale una scrittura piena di iperbati, metafore, metonimia, sineddoche; una figurazione accesa con cui il poeta tenta di rappresentare degli equivalenti alle sue visioni, alle sue suggestioni.
Il secondo macrotema è quello civile, volto a dar conto delle aberrazioni umane, della disumanità, delle miserie, verso cui è diffusa una forte indifferente. Vi è un velato fondo ideologico in Cannavale, ma che non scade mai in faziosa partigianeria; con la tecnica di accostamenti originali il poeta compie una sovrapposizione tra la vita appagante della fanciullezza e una sensibilità sopraffina a cogliere le asprezze del presente, il non senso, le indifferenze, l’eteronomia dilagante nel mondo d’oggi.
Troviamo nel linguaggio franto e allusivo, epifanie che rendono il ricordo vivo e interagente col presente con una tecnica tutta personale di sovrapposizione di immagini, persone, fatti.
La sua voce rare volte si distende in un recitativo tranquillo, anzi procede in modo sincopato, con metafore assolute e con stile epigrammatico, come se tutto ciò che ha da dire, si risolva nel breve spazio di una illuminazione.
Nelle liriche engagée, lo sguardo sull’oggettività è mediato dal momento letterario, col fine di parlare al cuore; ovverossia, grazie alla poesia, tentare di rovesciare quella realtà, per un’utopia, lavorando sulle corde dell’humanitas. Mi sembra che di fronte al senso tragico della storia, in cui l’uomo è vittima, Cannavale proponga la strada dell’amore, della solidarietà, dell’“I care”: «Ci vorrebbe qualcuno/per rimboccare il buio/alle notti dei randagi»; «Disumano chi impone/i chiodi della croce/ai palmi di chi non chiede/alcuna santificazione»; «Contronatura soltanto/il rigurgito nero dei flutti:/una tutina sulla battigia,/la pancia di un paese/un grande pesce muto/che ingoia tutto e tace» (il riferimento è alla pietosa immagine di Alan Kurdi?).
Certo, come si diceva, Cannavale comprende che il tempo è una macchina senza fermate che travolge i destini e gli sfugge l’essenza trascendente del mondo, che, nel suo flusso eracliteo, crea assenze, distanze, nullificazione. Vi è una sorta di horror vacui di fronte ad un mondo che tutto fa nascere e disintegrare, un oscillare tra presenza e assenza. E allora qui c’è la sua proposta teleologica: la vita non può essere conosciuta nella sua ratio, né tanto meno la si può fermare, sicchè non rimane che viverla e interrogarla; il senso potrebbe venire da questo momento agglutinante. Ecco, allora, tutte le liriche dedicate alla casa, alla madre, al padre e a tanti uomini invisibili.
Insomma, in sede letteraria si aggredisce la realtà e nell’andirivieni di passato rassicurante e di presente disumano si richiama una dimensione dell’anima che rimanda (pur da una posizione atea) ad un ontologico altrove, sostanziato di tenerezza e d’amore tout court: «Amare, gesto alto:/forse svanire/nei sogni dell’altro./Oggi nel tuo sorriso/giglio si chiude/il cerchio del senso».
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