Nel corso della Ventesima edizione della Settimana della Comunicazione si è svolta la tavola rotonda organizzata dal Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile (Roma) sul tema: “Condividere con mitezza. La speranza che sta nei nostri cuori”.

Riportiamo la relazione tenuta dal prof. Cosimo Rodia sul tema: Comunicare con la mitezza:

 

L’uomo è “Zoon politikon” (ζῷον πολιτικόν), per cui è inevitabile che abbia relazioni con gli altri; così, le modalità di comunicazione sono fondamentali per la qualità delle stesse relazioni. Il modus di comunicare può rendere più o meno efficace, aperta e produttiva una correlazione; non è un caso che la lingua, canale privilegiato dell’interlocuzione (nel trasmettere il messaggio dall’emittente al destinatario), abbia una ricca varietà di figure. Ad esempio, noi non sentiremo mai che un politico ha rubato il denaro dalla cassaforte, semmai sentiremo che egli lo “ha sottratto” dalla cassaforte. Perché l’eufemismo? Perché a volte si vuole essere più gentili, meno diretti, meno devastanti; e questo grazie alla ricchezza del nostro strumento principe di comunicazione, ricco, appunto, di sfumature garantite proprio dalle figure retoriche (l’ironia, l’eufemismo, la litote…).

La retorica serve a modulare l’espressione umana, a stabilire il modo in cui realizzare la comunicazione, sicchè non può essere considerato secondario il come si dica qualcosa. Insomma, nella comunicazione diventa importante sia ciò che si dice, ma altrettanto fondamentale è come lo si dica; una questione che interessa sia chi parla sia chi ascolta. La qualità della comunicazione prima e delle relazioni poi, non può non essere condizionata dal tono, dallo stile, dalla risonanza di ciò che si dice e di ciò che si attende chi ascolta. Così, il tema della mitezza diventa centrale nella comunicazione, anzi, una cartina al tornasole per la disponibilità soggettiva alle relazioni.

Aspetti fondamentali se pensiamo, poi, agli aspetti emotivi, che determinano il tipo di risposta soggettiva alle sollecitazioni esterne. Questo ragionamento vuol sottolineare quanto il modus della comunicazione sia fondamentale proprio per le sue implicazioni.

Andiamo per gradi. Ogni comunicazione è un poliedro che coinvolge il corpo, il rapporto con se stessi e con gli altri, l’iscrizione in uno spazio. Nelle relazioni si può presumere che ci sia qualcosa che soddisfi l’ascoltatore (ad esempio: la gentilezza di chi parla, la sua autorevolezza, la sua sapienza, lo stile, la bellezza tout court…); una soddisfazione che produce nell’ascoltatore un’energia, capace a sua volta di condizionare ogni forma di attività sia essa cognitiva che motivazionale (sarebbe a dire: io che ascolto sono pronto ad attivare cognitività e motivazione se innalzo chi parla a modello di stile, gentilezza, sapienza…). Si stabilisce una sorta di circolo virtuoso tra l’energia associata agli stati affettivo-emozionali e la disponibilità ai processi cognitivi (comprensione, elaborazione, risposta).

Questo ragionamento ci porta a desumere che ogni risposta umana ha un radicamento nella dimensione affettiva; anzi, questa essere la condizione nel motivare tutte le altre risposte umane, secondo una ideale successione causale: dolcezza del messaggio=disponibilità all’ascolto=accettazione dell’emittente= accoglienza/elaborazione/comprensione/interpretazione= risposta-interazione.

Per scivolare nel campo, che mi è più congeniale, la mitezza è una modalità fondamentale di comunicare in educazione, che presuppone una grande forza interiore capace di interagire con pazienza, rispetto, ascolto dei bisogni degli altri. La comunicazione poggiata sulla bonarietà non significa mostrare debolezza, ma significa, ricordando la lezione di don Milani, accogliere nonostante gli errori; mitezza significa non giudicare e non sottolineare gli errori con la matita blu; è correggere senza umiliare; rispettare i tempi di ognuno (ricordando che natura non facit saltus).

Ecco allora come nell’approccio con l’altro, la mitezza diventa un passepartout per creare varchi in chi ascolta e raggiungere l’obiettivo prefissato in chi parla, come ha sperimentato con successo Don Milani nel creare un ambiente educativo fecondo.

Su questo punto ci soccorre anche Papa Francesco, allorquando parlava di mitezza come virtù fondamentale. Anche Papa Francesco considerava la mitezza non una forma di debolezza, ma la grande capacità umana di dominare la rabbia, di agire con pazienza anche di fronte alle ingiustizie, di non rispondere alla violenza con violenza, di dominare l’ira, avere umiltà anche di fronte alle provocazioni… e questo lo diceva ricordando i caratteri di Gesù “mite e umile di cuore” (Matteo 11,29), oppure le sue parole: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Matteo 5,5).

Nell’enciclica Fratelli Tutti, Francesco è ancora più pregnante: “Le persone miti possiedono un dono straordinario: non cercano il conflitto ma evitano di alimentarlo. Sanno conservare la pace, anche in mezzo alle difficoltà”.

Assunti che sostanziano valori comportamentali, che orientano il modo di tessere le relazioni. La gentilezza, il silenzio, esprimere sorrisi e parole d’incoraggiamento, ascoltare chi ha opinioni contrarie senza alzare steccati, sono evidentemente condizioni per creare una civiltà inclusiva, che tende alla pacificazione più che al conflitto, all’altruismo più che all’egoismo.

Una comunicazione mite è la strada che può essere percorsa in diversi consessi; naturalmente il luogo per eccellenza è la scuola, in cui il docente non può non esser accogliente, dialogante, rispettoso dell’alunno che sbaglia; e pur comminandogli la giusta punizione, non lo condanna al pubblico ludibrio. Quando un insegnante si approccia in modo dialogante ad un alunno che ha sbagliato, è certo che questi è più disposto ad ammettere i propri errori.

La stessa strada può essere percorsa in famiglia, in parrocchia, in associazione, ovvero coinvolgere il ragazzo che ha sbagliato e spingerlo alla responsabilità, sempre con tatto, rispettosi dei suoi tumulti tipici della fase evolutiva che attraversa.

Allora, col modo schietto di comunicare si potrà supporre che l’aggressività individuale sia controllata, che la violenza diminuisca e i contrasti trovino una composizione costruttiva.

Da un punto di vista interpersonale è inevitabile che si favoriscano situazioni più empatiche, creando ambienti più tranquilli e coesi, originando di converso valori di rispetto e tolleranza che stanno alla base di una vera cultura della pace. E in un tale contesto tutte le forme di prepotenza sarebbero fuori luogo e i soggetti essere fiduciosi nel risolvere i problemi grazie ad una comunità beneducata, equilibrata, interagente.

Insomma, sarebbe possibile, senza grandi rivoluzioni, aprire le porte ad un nuovo umanesimo, in cui l’humanitas trovi senza tentennamenti pieno diritto di cittadinanza.

 

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