Note sull’arte poetica di Vittorino Curci, Spagina, 2025
di Cosimo Rodia
Con un registro cristallino e con la struttura aforistica, Curci rapprende riflessi essenziali sul senso della poesia, sulla funzione e sulle sue peculiarità. Il poeta pugliese qui si trasforma in critico ed estetologo, mettendo a fuoco un genere che lo cattura e non poco lo avvince.
Uno studio che si sofferma in particolare sul linguaggio («le energie nascoste nella lingua», aforisma n. 44), e sul rapporto che esso ha con la realtà; un lavoro che sfocia nell’estetica, nella misura in cui esamina il fenomeno della scrittura.
Curci, in più aforismi, mette in rilievo l’idea che nulla nasca dal nulla, ovvero la poesia scaturisce dalla lettura della poesia, meccanismo che vale anche per la critica letteraria; così, per estensione, quando riflette sulla poetica non può non farsi guidare delle riflessioni pregresse; nei 335 aforismi, infatti, è facile riconoscere i suoi ideali compagni di viaggio; tra ‘i maggior sui’ certamente c’è Orazio Flacco con “L’epistola ai Pisoni”, in cui il poeta di Venosa parla degli scopi e della natura della poesia, dell’importanza dell’eufonia e della necessità del labor limae, della genialità dell’ispirazione, della inevitabile conoscenza tecnica per elaborare un equilibrato componimento. Ebbene su questa linea Curci scrive: «Una cosa che ho capito benissimo è che la poesia ha bisogno di cesure, respiri, soste, silenzi» (n. 112); ancora: «Impossibile congelare il senso di una poesia. Esso è un fluido e mutevole come un fiume che attraversa il tempo» (n. 62); infine: «Nessuno ha il diritto di processare l’immaginazione. L’artista non deve giustificarsi di nulla» (n. 150).
Probabilmente tra le guide potrebbe esserci Max Jacob, secondo cui la poesia deve essere capace di cristallizzare chiaramente pensieri e visioni. Curci scrive: «Essere precisi quanto più l’oggetto è indeterminato» (n. 65); oppure: «Un miracolo che si compie spesso nei testi dei grandi poeti è quello di assistere alla trasformazione di una parola in virtù di un semplice accostamento ad un’altra parola» (n. 120).
Come potrebbe esserci Sklovskij per la nozione di ‘straniamento’, secondo la quale l’abitudine annebbia la nostra capacità di vedere le cose; per quanto le conosciamo, non le vediamo più proprio per l’abitudine di averle sempre davanti. Per risvegliare la capacità di visione è necessario mettersi in una prospettiva inedita; allora il compito dell’arte è combattere l’automatismo dei rapporti consueti per restituire il vero senso della vita. Ebbene Curci, a me pare, sia in linea con il linguista russo, allorquando scrive: «Il poeta usa la lingua come se fosse il primo ad usarla» (n. 78); «[…] L’artista ha un solo compito: quello di percorrere sentieri mai battuti» (n. 85); «Spesso il suono di una parola può trarti in inganno» (n. 129); «[…] Sono un logonauta» (n. 153)
Non manca, nelle riflessioni dello scrittore di Noci l’influenza dei simbolisti, in particolare Paul Verlaine, specialmente per la visione secondo cui la poesia non debba descrivere razionalmente la realtà, perché la ragione è negletta, sicchè la scrittura deve svolgersi nella libertà dell’autore e nella sua capacità di produrre musicalità con l’uso di parole giuste, del suono, del ritmo (riproponendo il labor limae di oraziana memoria), lasciando spazio all’immaginazione. Il poeta pugliese scrive: «Le mie immagini poetiche sono immagini interiori che spesso non hanno nulla a che vedere con la realtà o con il mio vissuto» (n. 76); «Nel visibile non c’è nulla da vedere» (n. 91); «Quando si ha a che fare con la poesia c’è sempre qualcosa che si sottrae al ragionamento, all’analisi […]» (n. 102); «Delle due l’una: l’arte o è espressione di un desiderio spirituale (di conoscenza, verità, destino…) oppure non è niente» (n. 179).
Infine, la vera poesia dice Curci deve essere pulita dalla retorica, dalle sottigliezze intellettuali e dalle arguzie che sono in realtà strumenti in uso ai mestieranti. E qui il Nostro è caustico: «Bisogna prima costruire il poeta facendo grandi scorpacciate di arte, cinema, teatro, letteratura, musica…. Le risposte, poi, arrivano da sole» (n. 57); «Liberarsi da ogni poeticismo» (n. 60); «Vietato essere ‘poetici’, cioè finti, sdolcinati, languidi. […]» (n. 127); «Più che la superficialità, ciò che mi fa veramente orrore in un poeta è l’autocompiacimento» (n. 212)…
Da musicista, Vittorino Curci afferma l’essenzialità della musica interna alla poesia, ovvero quella capacità di far risuonare le sensazioni e le emozioni contenute nei versi e, poi, accendere «piccoli fuochi nell’oscurità della storia» (n. 15).
Ad accompagnare le riflessioni del poeta, non mancano poi i giganti della letteratura mondiale, da Mandel’stam a Char, da Celan a Ashbery, da Rilke a Whitman, da Montale a Caproni, con una predilizione, forse, per Eliot, in particolare per l’idea secondo cui il poeta non ha una personalità da esprimere, ma deve essere il mezzo attraverso cui le esperienze o le impressioni si combinano in modo peculiare e imprevisto. La poesia non è libero sfogo di sentimenti ma è una evasione da essi (cfr. “Il bosco sacro”). Così Curci scrive: «Nei limiti del possibile i poeti dovrebbero imparare a dimenticarsi, a non essere molto presenti a se stessi […]» (n. 75); ancora «È la poesia, non il poeta, a dettare i tempi di composizione» (n. 55).
Insomma, un libretto audace, in cui l’autore si guarda allo specchio, in un confronto senza infingimenti tra l’essere poeta e l’essere critico, giungendo ad una “dichiarazione di poetica”, che a sua volta può costituire una fonte di riflessione sul ruolo più generale del poeta e della scrittura.
La frequentazione con la critica letteraria ha permesso a Curci di sciorinare visioni, considerazioni, definizioni, convinzioni da costituire un vademecum per ragionare sui meccanismi creativi e sul suo individuale percorso creativo, dando eventualmente la stura a un fecondo dibattito in un momento in cui si registra la elementarizzazione della conoscenza e la banalizzazione del dire.
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