Salvatore Toma: Una lettura
di Cosimo Rodia
L’interferenza dei fatti biografici nell’analisi critica potrebbe addurre non pochi malintesi nell’azione della stessa critica. Di cosa si deve interessare il momento critico? Possibilmente deve interpretare i testi, tradurre e registrare; ma se tali operazioni sono intrecciate alle impressioni personali (o a fatti extra letterari) ci si potrebbe allontanare dalla critica in senso stretto (benchè i fatti personali incidano nella creazione del fatto poetico, come causa prima).
Questa premessa generale, vale anche per Toma, intorno al quale il fatto biografico, riflesso in modo prismatico, ha creato una mitologia del personaggio, sviante per un’analisi oggettiva.
Iniziamo col dire che in Toma esiste una corrispondenza tra il tessuto immaginativo e il tessuto fonico, dall’ornatus poetico marginale e dall’incedere molto spesso prosastico. Andrea Afribo coglie, forse a giusta ragione, lo ‘spontaneismo’ di Toma, in linea con tanta poesia confessionale degli anni ‘70.
Toma è conosciuto in Italia per “Il Canzoniere della morte” curato da Maria Corti (Einaudi, 1999), che è certamente una operazione a tavolino; un volume in cui sono distillati, dalla produzione del magliese, 56 testi, tematicamente accomunati (nella fattispecie: due testi da “Poesie scelte”; quindici da “Un anno in sospeso”; trenta da “Ancora un anno”; nove da “Forse ci siamo”), per creare, nell’immaginario del lettore, la figura del poeta maledetto, che aborra la vita borghese, per seguire una selvaggia passionalità.
Chi ha conosciuto Toma, afferma che era perennemente sopra le righe, quindi con una morte quasi annunciata, giunta, infatti, a 35 anni (il 17 marzo 1987).
Fu vera Gloria? La studiosa Benedetta Maria Ala (B. M. Ala, “Puro e semplice e ribelle”. L’opera poetica di Salvatore Toma, in Luciano Pagano, a cura di, Salvatore Toma – Poesie (1970-1983), Musicaos editore, Neviano – Le, 2020, pp. XIX-XLIV) pensa che l’operazione della Corti sia una sorta di banalizzazione della poesia del magliese.
Ora, al di là dell’impegno di tanti valenti studiosi salentini e delle ‘reversibilità’ (Valli) rintracciate nelle composizioni di Toma, guarderei il risultato, ovvero, la cifra stilistica del poeta, e mostrare, pur convenendo sulla sua naturale predisposizione alla poesia (De Donno), che la stesura del dettato lascia non poche perplessità (almeno per il mancato lavoro di lima, per la componente retorica, per la qualità del linguaggio).
Limiti già rilevati da Marti, allorquando dice che Toma scrive “sotto l’urgenza del momento e dell’istinto, non riesce ad elaborare e a dominare il proprio linguaggio, anzi finisce per esserne dominato, per l’abbandono all’autocompiacimento e per l’incapacità di reagire all’impeto, nella carenza dell’equilibrio espressivo” (M. Marti, Salvatore Toma poeta: un “canzoniere” inventato da Maria Corti, in ID, Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, Congedo editore, Galatina 2005, pp. 147-148)
Il prof. Valli, nella prefazione a “Ancora un anno”, del 1981, rintraccia le “tre reversibilità” della produzione tomana (ovvero, i tre macro temi affrontati: Il mondo animale compensatorio alla società umana; l’andirivieni del sogno e della realtà; la morte e la vita); un’analisi ineccepibile, che comunque diventa generosa, allorquando si dice della poesia di Toma contenga “una purezza universale da salvare dagli attacchi devastatori di una società sempre più antiumana” (D. Valli, Prefazione a “Ancora un anno”, in Nicola De Donno, a cura di, Salvatore Toma poeta, Liceo F. Capeci, Maglie, a.s. 1998-1999, p. 66).
In verità, sembra di trovarci di fronte ad una poesia di un uomo disorientato, non riconosciuto socialmente, deluso, che cerca una modalità personale di stare nel mondo, una ricerca di equilibrio (non trovato), da fargli assumere atteggiamenti oppositivi, contro un mondo nel quale non si sente di incidere così come avrebbe voluto.
D’accordo con chi ha visto in Toma una tensione poetica di “purezza primigenia” (Macrì, Marti, De Donno…), noi rileviamo, però, più una dimensione istintiva del poetare, non sostenuta, di converso, da adeguate sovrastrutture culturali. Ed anche sul tema della morte, frequente in Toma, sembra eccessivo il richiamo ad Heidegger, finalizzato a considerare il suicidio come atto di affermazione di vita, perché in Toma non vi è un rifiuto assoluto della vita (come diremo più avanti), ma una condizione di disadattamento esistenziale.
Pur riconoscendo ‘l’istinto poetico’ in Toma, ovvero quel desiderio di essere lapidario e sintetico, diventa un’arditezza sostenere la qualità del risultato, perché il contenuto senza il linguaggio poetico, rimane prosa che poco ammalia (da tenere presente che l’unico bagaglio culturale del poeta è quello scolastico); inoltre, il suo male di vivere sembra essere la scaturigine da un disagio interiore, determinato dal suo modo di essere nel mondo, dal suo essere incompreso, dalle frustrazioni accumulate; e alle frustrazioni si risponde con la violenza o con la derisione, oppure con il sarcasmo.
Siamo in linea con Micolano, allorquando esprime i dubbi su Toma, come poeta maudit, propendendo, invece, per un poeta autoesiliato dalla società. Noi consideriamo la sua polemica col mondo, infatti, come il risultato irriflesso di tante frustrazioni, di una mancata condivisione-solidarietà umana, che hanno originato versi caustici, disperanti, rancorosi; per non parlare delle invettive contro la società letteraria, contro i compaesani, contro la società tutta.
Lo studioso Simone Giorgio parla di un poeta “dall’espressività molto marcata, espressività che ha reso la poesia molto diversificata e, in un certo senso, l’ha dotata di mezzi tecnici semplici ma estremamente versatili” (Simone Giorgio, Fortuna critica di Salvatore Toma, in Luciano Pagano, a cura di, Salvatore Toma. Poesie (1970-1983), Musicaos editore, Neviano–Le, 2020, p. 385). È una critica generosa definire ‘espressionismo versatile’ un linguaggio povero, immediatamente connotativo, senza mediazione letteraria, se non per l’uso frequente di iperbati o di alcuni preziosismi letterari (attinti dalle letture scolastiche), o per i troncamenti senza una vera necessità metrica o, infine, per i vocativi di ottocentesca memoria.
Presumiamo che passata la moda aperta dalla Corti, Toma potrebbe essere collocato in un ruolo secondario rispetto a quello che i sostenitori (Verri, De Donno, Macrì, Valli…) vorrebbero assegnargli.
Il poeta di Maglie è stato un autore che è riuscito a sentire l’esistenza al di là del convenzionale, pur tuttavia con armi insufficienti per semantizzarla. La sua “aletterarietà” ha dato alla sua visione del mondo una componente violenta, tanto che leggere alcuni suoi testi, originano dei veri e propri choc.
Mi chiedo se fuori da un certo espressionismo diretto, piegato ad accusare la società disumana, fuori dal tema della morte e del suicidio (fatto inventato) esisterebbe l’interesse per la poesia di Toma.
Maria Corti, con la sua antologia, ha creato la mitologia del personaggio, ed ha portato il poeta magliese alla ribalta nazionale, mettendoci delle trovate ad effetto, per accrescerne l’enfasi; intelligente è stata l’operazione di creare un corpus tematicamente omogeneo, con delle precise peculiarità. Ma al di là della mitologia, se noi attraversiamo diacronicamente i libri pubblicati, mettendo da parte anche le indulgenze amicali (com’è nel caso di Verri), rileviamo, nelle poesie giovanili di Toma, una propensione alla poesia allo stato puro, senza essere corroborata dagli strumenti sia semantici sia metrici, se non per l’uso, a volte, delle rime.
La prima raccolta è condizionata, infatti, dalle conoscenze scolastiche; si pensi ad esempio a “Prime rondini”, titolo della lirica che dà il nome all’intera raccolta, i cui primi tre versi recitano: Vi ho udite arrivare/o prime rondini/nel vento d’aprile; ecco, l’incipit sono tre senari di ascendenza carducciana con atmosfere tristi pascoliane; e questo è il leit motiv dell’intera raccolta; infatti, “Pompei del cuore” inizia con: Nel mio fattor di lecito parlare, ovvero, con un endecasillabo di dantesca sonorità. Ancora in “Terzo doloroso giorno”, i primi quattro versi sono: Se prima di me si amerà/che tu risponda all’appello/nessuno vorrò ai tuoi funerali/o padre, l’incipit non può non ricordare: s’io non andrò sempre fuggendo di foscoliana memoria. Di ascendenza leopardiana è invece “Come dolore vita è tramutarsi”; per non parlare degli aggettivi di derivazione letteraria come: ‘pietose’, ‘compassionevole’, ‘cinereo canto’…
Anche la metrica usata è di tipo scolastica, abbondantemente superata nella poesia del Novecento (tanto che collegare Toma con la produzione coeva sarebbe una forzatura), benchè il risultato complessivo, fatti salvi i processi emulativi, oltre che ai furori giovanili (si vedano le poesie dedicate al padre), è una prova compatta, con alcune originalità tematiche che saranno sviluppate dallo Stesso, successivamente e con degli accostamenti audaci come in “Dell’ombelico”: Il tramonto/stasera/appassisce/come uno stormo di vipere ubriache./Dell’ombelico/nuvole improvvise/ci sventrano/la pietà.
Nel 1972, Toma pubblica: “Ad esempio una vacanza (a Babi)”; e con uno stile confessionale, dà conto di una vacanza, vera o sognata, con una ragazza (Babi, appunto) che secondo alcune interpretazioni (G. Chiappini, Per Salvatore Toma, Edizioni Magliesi, Maglie, 1997, p. 11) doveva essere un momento liberante, un sogno di evasione impossibile. In realtà sembra essere un modesto diario impoetico, di un’avventura scritta senza mediazione letteraria, e da cui si evince un’idea della donna poco edificante: ecco l’incipit dei primi due testi: Hai le gambe sdraiate/come una vacca/che guardi rapito/e ti senti felice…; più avanti: Certo tu sei più brava/non tiri i peli/e non lasci mai le cose a metà… Un racconto per lasse, di giorni passati ad amare e mangiare su un’isola quasi disabitata. Sicchè in uno degli ultimi componimenti, il X, i versi recitano: Che coglionata/ora che ci ripenso/portare una squillo in vacanza/perché è stata gentile…
Tra amplessi, pensieri, illusioni passa la vacanza che dà la cifra più che altro della solitudine del poeta, trascritta in modo prosastico, immediato, col linguaggio colloquiale. Valga come esempio: M’è venuto il sorriso/tanto stavi diversa./Ma tu come al solito/non capisci un corno…; o ancora: È da due giorni che non ci prendiamo./Dato il gran sole non trovo strano/che a nessuno dei due venga voglia…
Un versificare in cui prevale il contenuto più che il contenente; e a noi pare di essere molto distanti dall’anticonformismo, ad esempio come quello di Ginsberg, quando scriveva: Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia…
Nel 1977 esce la silloge “Poesie scelte”, forse la raccolta più riuscita di Toma per via dell’andamento epigrammatico e per le convincenti immagini nell’esplicitare impressioni, com’è nel caso di “Inverno” che recita: Ruba/ai mandorli/carambole di fiori/il bel fresco della valle/il cappello al guardiacaccia/sepolto come il cibo della neve.
Oltre all’uso dell’iperbato, troviamo una foto paesaggistica, con un cielo plumbeo, mentre tutto intorno sfiorisce; un testo umbratile ed equilibrato. E si continua in “Ma gli odori” con una classica sinestesia: Ma gli odori/mio caro amico/quelli li gusti ad occhi chiusi/proprio come li hai colti. Un’altra istantanea è la pesca ai polipi: Non si raccolgono i polpi/in un vetro liquefatto/come arance al sole/in una miriade/di odori stagionali/ma…
O ancora “Il falco” che recita: Vanno nel meriggio di fuoco/di un’estate infinita/ali vuote nel vento./Un treno che passa/non lo turba per niente./Sulle aride distese domina/variante la sua immobilità. Anche qui un’altra istantanea, in cui il falco, che non si lascia disturbare dal treno (o dalla quotidianità?), potrebbe essere un paradigma esistenziale o una meta trascendentale.
Nel 1979 è la volta di “Un anno in sospeso”, una raccolta con molti passaggi impoetici, senza una grande ricerca linguistica, dall’andamento diaristico e a volte sentenzioso. Già nella poesia d’apertura i versi recitano: Sono un grande poeta/uno di quegli artisti singolari/e me ne frego/dei miei debiti morali./Me li deve pagare il governo/forse il padreterno/in cambio della mia/opera volgare./Infatti come chi tutto conosce/voglio godermi la vita/ogni momento/piuttosto che avere alla fine/la fregatura di un monumento.
Una forza iconoclasta da bar sport, di benniana memoria, con un linguaggio quotidiano e con una polemica fine a sé stessa. Oppure: Hai mai pensato/a quanta gente/muore ogni giorno di cancro?…, dove scorgiamo un’ironia tagliente, con sarcasmo a buon mercato. Oppure le rime stucchevoli in “A un pessimo idiota in base a un certo discorso sulle stature”.
Approssimativo sembra il testo “Semplice constatazione”, impregnato di luoghi comuni e di rabbia individuale; i primi versi recitano: Dice un vecchio proverbio/chi si fa la villa al mare/la casa grande/il palazzo da fare invidia/tutta la vita ha fatto/una cosa sola: ha rubato…; siamo ad una scrittura oppositiva nazionalpopolare. Come troppo caustico è quando l’autore parla dei critici letterari; si legge in “A un critico letterario”: Mio caro erudito/civilizzato rincoglionito/tu sei morto/da tempo infinito/e non lo hai capito…
Sembra velleitaria, poi, la penultima poesia che chiude la raccolta, dedicata a Pasolini, in cui Toma tende un’analogia tra sé e il poeta-regista, per essere incompresi e offesi.
Ad un certo punto, sposando la causa animalista, Toma compie un parallelismo tra maiale e uomo; difendendo in altre poesie ora il vitello, ora il cane accalappiato, ora la mosca, ora gli uccelli… Un animalista ante litteram?
Tra tanti testi prosastici, ogni tanto troviamo qualcosa che riluce, come in “Canzone in allegria” in cui all’autore viene l’intuizione che dopo il ciclo naturale, diventerà albero, radice, fiore, montagna: eppure un giorno ero vivo/e ho visto il mondo; una bella intuizione esistenziale.
Nel 1981 arriva la raccolta “Ancora un anno”, con prefazione di Donato Valli, dalla cui silloge Maria Corti attinge a piene mani, per il suo “Canzoniere”.
Già l’epigrafe dedicatoria agli indiani d’America lascia intendere che Toma continuerà la linea della denuncia antimodernista. Ad ogni modo, eccetto i primi due testi più equilibrati e regolari, l’autore continua sulla falsariga delle raccolte precedenti. Così, ritroviamo l’invettiva contro gli ermetici; in “Chiusura finale di un discorsetto di un bue…” si legge: Perciò miei cari amici/cosa c’è di più bello/e di più salutare/da augurare a un buon nemico/se non la morte?
Ecco, sono versi evidentemente senza musicalità, senza trasporto e senza ricerca. E continua con “So mmbriaco fradicio” in cui denuncia la mediocrità di un mondo di scemi e, sotto l’effetto dell’alcol, si sente un padreterno/na santità, quasi una condizione di epochè, in cui le frustrazioni (di ordine personale, sociale, economico) si vaporizzano, gonfiando le vele dell’autoesaltazione.
L’“Ultima lettera di un suicida modello” ha il seguente incipit: A questo punto/cercate di non rompermi i coglioni/ anche da morto./È un innato modo di fare/questo mio non accettare/di esistere […] Addio bastardi maledetti/vermi immondi/addio noiosi assassini. Sono versi da cui emerge uno spirito arrovellato, disancorato, solo, dissociato, alla deriva (uno spirito anche contraddittorio se si pensa che “Non pensare alla morte” è un inno alla vita; come lo è “a Carlo” dell’ultima raccolta).
Una disposizione, quello del magliese, che acuisce lo spirito di osservazione sul mondo circostante; e sempre con il dire caustico, Toma scrive “Quando i vivi non sono veri”, in cui analizza la ritualità di un funerale, dove manca una reale partecipazione per la dipartita del defunto: perfino il lutto/il rosario dalle mani:/la preghiera…/la preghiera si dirà domani. Insomma la conclusione è che l’atteggiamento formale delle relazioni umane è la dimostrazione dell’inautenticità del vivere. Poi, nella raccolta abbondano poesie sul tema della morte, che tanto hanno ammaliato la Corti; leggiamo tra le tante “Nessuno se lo sarebbe immaginato” che recita: Nessuno se lo sarebbe immaginato/come lo si poteva sospettare?/La sera prima/sorrideva serena/a una prima teatrale/aveva con amici/parlato del più e del meno/ammirato volti pellicce/avuto conoscenze inviti nuovi/congratulazioni./Tutto insomma pareva normale/i gesti le fantasie le parole/perfino gli spropositi/il modo più accentrato/di portare il foulard./Ma la morte/si manifesta anche così/a volte in armonia con la vittima/sadica inusuale un po’ distorta./Ci permette di sorridere/proprio perché l’ultima volta. Il contenuto è quello di rilevare la caducità della vita, col futuro adombrato da incertezze, ma è una poesia grezza: poco raffinata, con la scelta di usare poco i legamenti, saltare la punteggiatura, usare versi irregolari, enjambement forzati, registro colloquiale.
Nel 1983 Toma pubblica l’ultima silloge: “”Forse ci siamo”, dove l’autore ripropone l’atteggiamento caustico verso l’esistenza e gli uomini; emblematica è l’invettiva contro Maurizio Cucchi in “Scherzo per puffi or ch’è primavera”, che l’aveva rifiutato nella sua collana della Mondadori.
Altre poesie si aprono al surrealismo (“Gli inquirenti”, “Delirio”, “Insonnia”), poi di tanto in tanto qualche perla che riluce, come la lirica “a Carlo” che affronta il tema del tempo, delle esperienze, del fine corsa e del desiderio umano di rifare il percorso (perché la vita è bella).
Ma a prevalere sono le poesie arrabbiate, che gridano contro un tu, che può essere genericamente la società, ma dai contorni svagati; a primeggiare è la furia verso un supposto nemico; in “In cerca di amuleti delfini acque topazi”, n. 6, si legge: Potete sbattermi in cella/stordirmi picchiarmi/lacerarmi il mento e le braccia/non sono della vostra razza/del corpo so farne a meno/a volte lo guardo così/come un estraneo/non è mio mi dico/non sono io che sanguino/che ho male al collo/ma c’è una cosa che/non potete mai picchiare:/è la mia libertà/che non conoscerete.
Ma chi lo minaccia? Uno che scrive sotto l’effetto dell’alcool, non può non avere una visione distorta del mondo, specialmente di quel mondo che probabilmente non lo riconosce. Così si arriva a versi volgari, quanto stucchevoli come in “Cari cittadini”, illeggibili ed arbitrari (È da anni che vado a diarrea/[…]è da anni che al bagno/non faccio un bel stronzo colossale[…]eppure di stronzi ne conosco…); versi prodotti da una mente incapace di distillare il pensiero e creare bellezza poetica, per una rabbia senza freni, perché tutto inizia a naufragare intorno a sé, dalla scomparsa del passato, alla fine di un amore, al mancato riconoscimento letterario, alla marginalizzazione sociale.
Non mancano pensieri drammatici, forse quelli con più valore, che rilevano come il tempo passi e tutto sia avvolto da inautenticità.
E finanche quando parla d’amore, oltre alle pagine in cui si sofferma sugli aspetti istintivi, sull’erotismo, sul desiderio, sul corpo, sulle gambe, non si alleggerisce in Toma la visione della vita; in “Ti stanno cadendo i capelli” annota un cambiamento fisico, che è pure un cambiamento relazionale, allorchè il poeta andando a letto, si accorge che la moglie russa, ovvero non l’aspetta, perché tutto cambia e lo slancio giovanile si modifica (anzi, si perde).
Il quadro finale che noi traiamo, infine, è quello di un uomo disperato, dall’atteggiamento oppositivo, dalla precarietà esistenziale, da una emarginazione fisica ed artistica, con una percezione che tutto scorra ineluttabilmente e che la morte potrebbe essere una possibilità concreta per liberarsi di un agonismo perdente; ma non ci pare, alla fine, un poeta che aneli alla morte.
(La lettura critica è pubblicata sulla rivista letteraria LA VALLISA n. 123, Gagliano editrice, pp. 12-19.
L’intero numero 123 della rivista e i due numeri precedenti (nn. 120-121, 122) sono fruibili gratuitamente online su Interzona news nella categoria OSPITI).
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