Piccolo canzoniere d’amore di Sandro Marano, Edizioni La Matrice, 2025

di Cosimo Rodia

 

Con la trovata manzoniana di scoprire casualmente un vecchio quaderno scritto da anonimi in lingua francese, Marano non può far a meno di tradurre le sedici poesie contenute, già col titolo: Piccolo canzoniere d’amore.

I primi versi cantano l’urgenza di un amore appena sbocciato: «Questo pomeriggio […] è troppo lungo senza di te»; un sentimento condiviso dalla lei, così il lui nel descriverla vede negli occhi dell’amata «il mare e i suoi cento colori». Con l’euforia in corpo, invita la lei, uscita per lo shopping, ad acquistare una borsa per conservare «I nostri sogni/i nostri giochi proibiti», per evitare che il vento li disperda.

E la natura sembra partecipare alla nascita di questo sentimento tumultuoso; alcuni versi recitano: «Sbocciano tra le rocce in riva al mare,/incuranti del maestrale, i piccoli/fiori azzurri dell’arsa salicaria./E un’altra stagione d’amore è giunta,/inaspettata travolgente festosa,/come le mille candele danzanti/che il vento accende adesso/sulla sommità delle palme». Così la natura aderisce all’amore sbocciato inaspettatamente, alle vibrazioni che il sentimento produce, come si evince ancora da “Stupore blu” o come in questi versi: «Il tempo era bigio, punteggiato di silenzi/e di memorie, e noi componevamo/frammenti di un poema d’amore,/come fiori sparsi nei campi,/come note d’un improvviso al piano». Il lui si perde «negli occhi verde acqua» di lei, e mentre infuria una mareggiata di settembre a scaldarlo è solo «il pensiero di te».

Tutto questo stordimento alla fine, però, si dilegua, tanto che il lui pensa: «Ecco, il nostro prenderci/tra il mirto gentile/e il ginepro coccolone/è un ricordo o un sogno?»; tanto che si giunge all’intenso emistichio, che dà il titolo alla lirica «Sei rosa e sei cenere». Così l’epilogo: «Fuori la pioggia bagna le strade/come la tristezza il mio cuore./E il tuo viso scolora nella nebbia».

A me pare che Marano voglia, fatta salva la narrazione degli effetti dell’innamoramento, maggiormente dar conto del valore della poesia come forma di scandaglio e di parziale conoscenza del mondo; ovvero, conoscenza di quell’esistenza che spesso si riduce ad un battito di ciglia o ad un mero sogno.

Mi sembra di poter dire che “Il piccolo canzoniere d’amore” di Marano abbia almeno due momenti; il primo è quello dell’innamoramento, appunto, dell’ebbrezza e della felicità smemorante che ne consegue; il secondo è quello del disincanto di fronte all’apparir del ‘vero’. Le prime liriche, infatti, cristallizzano lo scuotimento dell’animo, poi, piano piano si fa strada un atteggiamento di nostalgia, di struggente tenerezza del ricordo e la manifestazione della verità, non tanto segreta, di quegli aspetti labili dell’esistenza.

Marano uso parole comuni, piegate alle sue esigenze espressive, per caricarle di valori semantici e di significatività esistenziale; e per far questo è aiutato dalla memoria culturale, con lessemi ora pascoliani (“gelsomino”), ora leopardiani (“pena”), ora dannunziani, come ad esempio nel richiamare i colori: «verde acqua i tuoi occhi», nella descrizione del sorriso dell’amata: «fiori d’un mandorlo», nelle unità lessicali come “arsa”, “maestrale”, “ombreggia” e ancor più come in “Disegna ghirigori la luna” che sembra risentire l’influenza della celeberrima lirica “O falce di luna calante” i cui versi recitano: «La luna brilla su l’acque deserte…» facendo ondeggiare «messe di sogni»; bene, in Marano la luna illumina la «casa vuota» e origina «ombre di sogni».

Un Canzoniere che naturalmente esalta l’amore nelle sue varie sfaccettature e ne rappresenta una condizione ineludibile del vivere, benché la vita spesso abbia, servita di mano, un poker d’assi.

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