Una torre contro il cielo di Chiara Lossani, Paolini, 2025

di Cosimo Rodia

 

Un romanzo molto ben scritto, con una cornice ora storica, ora mitica. Ci troviamo a Babilonia, dove si costruisce una torre alta fino alle nubi, con riferimento alla Torre di Babele, di cui si parla nel libro della Genesi, per sfidare Dio; questi, per l’atto di presunzione e per fermare il progetto, punisce gli uomini confondendo loro le lingue, trasformando la Torre in una babele (dall’ebraico “balal”, che significa “confondere”).

In questa intelaiatura si muove Iruk, un ragazzo con difficoltà espressive, che compie una serie di avventure, mentre porta da mangiare al suo papà che lavora alla costruzione della grande Torre: salva un cane dalla corrente sul fiume Tigri; s’imbatte in Atalu, un vecchio consigliere del re, che come tutti i vecchi, non essendo più abile al lavoro, rischia di essere trasportato fuori città a morire lontano; conosce il giovane scriba Bastir, dal quale apprende i sacrifici degli animali svolti in cima alla torre, così i due ragazzi, sfidando le guardie del Re, li liberano. Qui succede l’inaspettato: tutti gli uomini della torre parlano lingue diverse e un terremoto rovina la grande costruzione. Ognuno tenta di mettersi in salvo e ai piedi della torre, Iruk incontra il padre ferito e la madre; e prima di scappare, il giovane aiuta Atalu, che segue la piccola famiglia.

Lontani da Babilonia, si fermano in un’oasi con altri gruppi, ognuno con la propria lingua; Iruk ritrova Bastir, accolto dalla sua famiglia e insieme decidono di ricostruire una nuova Babilonia e «Babele e la sua torre diroccata rimarranno dove sono, per non farci dimenticare» conclude il papà del protagonista. Nel frattempo, Iruk, lo scriba e Atalu iniziano a pensare a nuove parole capaci di creare una nuova civiltà, così inventano: «amici» e per la prima volta Iruk scrive una frase completa: «Due amici possono fare grandi cose insieme».

Un bel romanzo che intreccia in modo sorprendente la nascita della scrittura, che ha segnato una discontinuità nella storia umana, i riferimenti alle Sacre Scritture, i rinvenimenti archeologici, il tutto imbastito in una avventura umana avvincente, scritta in prima persona, attraverso l’esperienza umana del protagonista.

Il vecchio Atalu è la coscienza, il SuperIo, la misura, la sapienza da cui abbeverarsi per rinascere. E tra avventura, spirito di sopravvivenza e progettualità per un futuro migliore, l’autrice incastona una poesia di cinque mila anni addietro, ritrovata a Ur: il pianto della dea Nigal per la sua amata città distrutta, i cui versi finali recitano: «Sono esiliata dalla città/ che non ha trovato pace./ Sono espulsa dalla casa/ che non ha trovato sede,/ sono una straniera che vivrà/ in una città che non conosco».

Come non riconoscere in questo pianto, quello dei due milioni di gazawi o di tant’altri che subiscono la condizione di esuli?

Un romanzo dall’impianto narrativo essenziale, senza sbavature, dialogico, con descrizioni ridotte al minimo e con i rimandi storici o mitici incastrati in maniera esemplare e collegati alle esperienze tipiche dei preadolescenti.

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