Una futuribile zattera: Il biocentrismo

di Sandro Marano

 

In una pagina di quello splendido saggio, che è Intorno a Galileo (1933), Josè Ortega y Gasset, dopo aver notato en passant che «la vita degli antichi era stata cosmocentrica; quella medievale teocentrica; quella moderna antropocentrica», si chiede: «E la prossima?». Tuttavia non dà una risposta, pur dichiarando di conoscerla bene. Vogliamo provare noi a dare la risposta taciuta ad arte dal filosofo spagnolo?

Il nostro punto di partenza è la crisi che viviamo nel nostro tempo col suo percorso nichilistico e delirante, di fronte al quale l’atteggiamento più diffuso è quello di una acritica accettazione o l’ammissione della sua ineluttabilità. Il che equivale a non pensare. Pensare infatti significa andare oltre.

Di fronte alle cose che lo circondano l’uomo avverte la sua precarietà, l’angoscia di non avere un centro di gravità. La vita è «un sentirsi naufrago in un elemento misterioso, estraneo e spesso ostile», diceva con una bella metafora il filosofo della ragione vitale. Da questa tensione, da questa radicale insicurezza nasce il pensiero, cioè la necessità di pensare la verità e trovare soluzioni, di elaborare tecniche per modificare e migliorare le circostanze, di porre e proporre una credenza vitale. E sorgono la scienza con le sue applicazioni tecnologiche, la poesia che dà voce alle emozioni, la religione che ci parla del sacro e quel pensare tout court che è la filosofia.

Il mondo che ci circonda ha due componenti fondamentali: da un lato c’è la biosfera, la natura vivente con la sua bellezza e la sua tremenda necessità, e dall’altro c’è la tecnosfera, il mondo sociale con le sue credenze, le sue tecniche e le sue ideologie, i suoi riti. Oggi un mondo artificiale ha quasi del tutto soppiantato il mondo naturale. La tecnosfera prevale sulla biosfera. È con questo mondo in gran parte artificiale che deve misurarsi un pensiero che voglia essere all’altezza dei tempi.

Il paesaggio, che è l’incontro/scontro dell’uomo con ciò che lo circonda,  segna la geometria esistenziale di ciascuno di noi. Ci sono paesaggi agresti che richiamano la serenità, urbani che evocano l’inquietudine (magnificamente rappresentati dai quadri di Sironi, di Carrà, di de Chirico), industriali che inducono una tristezza crepuscolare. È profondamente diverso l’antico greco che fondava le città della Magna Grecia in una natura che palpitava dei segni del divino dall’uomo d’oggi che naviga in un mare di plastica ed abita città sovrappopolate ed asfittiche.

La visione antropocentrica, che si è potentemente affermata a partire dal XVII secolo e poi soprattutto grazie alla rivoluzione industriale, è entrata ormai in crisi. La felicità promessa si è rivelata un pericoloso miraggio. “L’avvenire, ormai, non porta più speranze ma inquietudini” (Alain de Benoist). I danni ambientali bruciano le aspettative di benessere. Sopravvive, è vero, nelle masse lo scientismo, la fede inerte in una scienza di cui nulla si sa, che corrisponde, se vogliamo, al culto superstizioso che in altri tempi si rendeva alle reliquie dei santi. «Qual è il senso di tante invenzioni, di tanti progressi scientifici, dell’ultimo traguardo tecnologico, se il risultato è un mondo sempre più spietato, grigio, impersonale?», si chiede non a torto Cristoph Baker. La ragione scientifica non riesce a cogliere la totalità della vita: «l’umano sfugge alla ragione fisico-matematica come l’acqua da un canestro» (Ortega y Gasset).

Di fronte a questo stato di cose, intorno agli anni ’60 del secolo scorso, scienziati e filosofi, da Rachel Carson a Konrad Lorenz, da Karl Löwith ad Arne Naess, cominciarono ad interrogarsi sul valore della nostra civiltà e a delineare una nuova e diversa rotta, consapevoli che mantenersi invece sulla stessa rotta ci porterà alla catastrofe.

Nel 1984 i filosofi George Sessions e Arne Naess stesero gli otto punti dell’ecologia profonda, un movimento di pensiero che mette in discussione il paradigma vigente nella nostra società fondato sulla crescita economica e sul produttivismo e propone una visione biocentrica, secondo cui l’uomo è parte integrante di un tutto più vasto e complesso. Per l’ecologia profonda la logica del vivente non può che prevalere sulla logica del profitto.

L’ecologia profonda rappresenta nel mondo attuale una novità radicale ed appare l’unica corrente di pensiero all’altezza della crisi: «Quel che oggi propone l’ecologia, ogni volta che cerca di ricollegare l’uomo alla natura e di rispondere alla perdita di senso causata dalla loro separazione, è proprio l’adozione di un nuovo punto di partenza. Essa ci invita ad un cambio di direzione, ogni qual volta reagisce ad un antropocentrismo che fa dell’uomo un valore supremo» (Alain de Benoist).

Ogni epoca storica tende prima o poi ad avere un suo centro di gravità. La visione che faticosamente e lentamente sta emergendo nella nostra epoca è una visione biocentrica. È questa, se vogliamo non perire, la prossima visione del mondo e dell’uomo.

 

 

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