Che cos’è la poesia? di Daniele Giancane, Tabula fati, 2020

di Cosimo Rodia

 

Giancane da autentico magister compie un trasfert della sua sapienza e partorisce “Che cos’è la poesia?”, una sorta di cartaceo salotto letterario in cui il maestro riflette sui ferri del mestiere davanti a ipotetici allievi che si vogliono avvicinare all’arte della poesia, un genere insignificante per quanto ineludibile nell’esperienza umana; e il suo progredior non ha nulla di accademico, anzi procede a salti, per nuclei tematici a volte solo accennati, fissando al contempo un ideale elenco per un discorso articolato sulla poesia; così, con l’urgenza di lasciare una testimonianza della sua conoscenza («Quando si diventa anziani, più che pensare ai propri successi personali[…] occorre indicare ai giovani le migliori strade da percorrere»), Giancane ci consegna una serie di argomenti, riflessioni, testi, ultimando un breviario e ci dice: che prima di scrivere è necessario che si legga, perché nella lettura si cerca la propria strada; che la poesia non serve eppure ci salva la vita; che per educare alla sensibilità poetica è necessario che la scuola, spesso distratta, faccia la sua parte; che per scrivere poesia bisogna rifuggire l’ovvio; che la poesia non nasce d’emblée (e ci fornisce l’esempio de “L’infinito” di Leopardi); che la poesia vuole amanti e non seguaci passivi o manierati; che una parte della poesia ha un’origine miracolosa (il primo verso lo dà Dio [Paul Valery]); che non c’è poeta senza metafora; che il poeta è un rivoluzionario della lingua; che quando langue la poesia ci pensano a diffonderla i cantautori; che non si può fare a meno di studiare chi si è interessato di poetica [Emerson, Heidegger, Pound, Bachelard].

Conclude il professore barese: «Credo che[…] si possa[…] definire la poesia “un linguaggio ad alta condensazione emotiva” (emozione “del cuore” o dell’intelletto preso al laccio da un verso) che attinge a un mondo “altro”».

Il magister, dunque, non conosce pensionamento e dispensa parte della sua dote perché non tutto vada perduto.

 

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