Il lirismo parodistico di Luciano Folgore

di Sandro Marano

 

«Te, nuda dinanzi la lampada rosa,
e gli avori, gli argenti, le madreperle,
pieni di riflessi
della tua carne dolcemente luminosa.

Un brivido nello spogliatoio di seta,
un mormorio sulla finestra socchiusa,
un filo d’odore, venuto
dalla notte delle acacie aperte,
e una grande farfalla che ignora
che intorno a te
non si bruciano le ali,
ma l’anima.»

 

Questa lirica di Luciano Folgore (1888 – 1966), intitolata Tutta nuda è tratta dalla raccolta Città veloce (1919), che rappresenta l’ultima eccellente produzione della sua stagione futurista dopo Il canto dei motori (1912) e Ponti sull’Oceano (1914). Luciano Folgore, peraltro, è lo pseudonimo di Omero Vecchi, che aderì giovanissimo al futurismo e per ironia della sorte aveva un nome e un cognome tutt’altro che futurista. La successiva produzione poetica di questo poeta romano, che mantenne comunque il suo pseudonimo giovanile, è raccolta in Liriche (1930), con cui si allontanò dai temi canonici e reboanti del futurismo (in particolare, dall’esaltazione della macchina, della velocità, della dinamicità, dell’ordine geometrico dell’universo), recuperando una visione più tradizionale della poesia. Ma la sua indole giocosa e la sua vena umoristica ebbero modo di esprimersi soprattutto nelle gustose parodie dei poeti contemporanei con Poeti controluce (1922) e Poeti allo specchio (1926) e in raccolte di novelle come Nuda ma dipinta (1924).

Va rilevato che «il Folgore futurista è sostanzialmente un moderato all’interno del movimento e mitiga alcune delle più ardite provocazioni marinettiane» (Roberto Taioli), come si nota proprio nella lirica sopra riportata dove la tecnica futurista, contraddistinta dall’uso dell’analogia (nella fattispecie: donna – lampada), dalla sintassi nominale e dal lessico semplice e accattivante si unisce ad «una sensualità elegante e raffinata» (Roberto Taioli), che prelude ad altre stagioni più intimiste e composte.

Per la critica più autorevole la caratteristica di questo poeta  è «una vena leggera di impressionista fantastico che è anche il trait d’union con la vocazione di parodista e favolista» (Pier Vincenzo Mengaldo). A tal proposito esemplare è la poesia dedicata al caffè intitolata Moka sensazione fisica, tratta dalla raccolta Ponti sull’oceano, nella quale le sensazioni di benessere fisico, di risveglio, di eccitazione provocate da una tazzina di caffè sembrano smorzarsi nelle grottesche immagini finali:

 

«Nero. Più nero. Troppo nero.
Moka.
Il sonno ruzzola giù dalle scale
della stanchezza.
Una voglia pazza d’intorno
ai nervi,
gira, gira, gira.
Il desiderio – ginnasta incomparabile –
a salti mortali nel cervello.
Le idee: mazzi di fiori,
grandi, grandi,
senza gambo,
pigiati nel vaso del cranio.
Gli occhi smisurati in ridda
dietro profili di cose strane.
Benessere.
Strappo acuto.
Forse vertigine.
Subitaneo smarrimento.
Ripresa al galoppo, per ogni fibra,
dei turbini del caldo eccitante.
Infine massaggio di mani
di negre bruttissime
su tutta la pelle,
ilarità del passaggio leggero
di una mammella floscia lungo la schiena
Moka.

Nero nero.»

 

Nelle sue poesie Luciano Folgore tende ad evocare, sotto il segno del cromatismo, particolari sensazioni, soprattutto visive e tattili. Così nella poesia Porta verniciata di fresco, tratta dalla raccolta Città veloce, gli oggetti artificiali (la porta verniciata, i muri di cinta) sembrano “naturalizzarsi” e trovare una controparte fraterna negli oggetti naturali (il mandarino, i cespugli, i calabroni):

«Freschezza di una tinta verde / (E tu, porta, che la senti / con la resina dentro in pieno odore). […] / Porta lasciata sola / in questo muro di cinta. / perduta forse; / premuta forse / non so da quanti cespugli in amore. /Ronzano due calabroni / e una goccia più verde / cammina lungo la serratura, / lentissimamente. / Nella strada nessuno. / Soltanto un poco di senso d’infanzia / per cinque dita di bimbo / impresse nel fresco della vernice. / E la guarda strano il mandarino, /
che si spenzola / pesantemente dal muro, / nel desiderio di gocciarsi / vicino alla porta. / Chissà? / Cerca una mano che colga / la sua maturità, / più che due stille di resina / sparpagliate / in una primavera di tinta. / Ma…»

Anche la fine d’un amore è tratteggiato dal poeta senza drammi e con un amor fati di tempra futurista, come in questi versi di Pause pomeridiane:

«Fine d’agosto. Tranquillità. Poche rose.
La terrazza. Lontananza. Una vestaglia,
la tua.
Vetture. Uomini. Fanciulli. Risate.
Rondini della domenica.
Domenica delle ultime rondini.
Sola. Lassù. Presa dal silenzio.
Diafana quasi contro luce.
Non salgo. Tutto è dolce. Tutto è giardino,
qui.
Campanellini dei cuori: din-din din-din din-din.
Marciapiedi con pagliuzze luminose.
Alberi mezzi gialli di sole.
Passeggiata verso il parco.
E questo andare con gli sconosciuti in vacanza
dagli abiti lustri e festivi.
Tu fuori vista. Senza desideri. Lassù.
io invece pieno di musica.
Goccia troppo pesante, ci dividiamo in due parti.
Tu per gli arcobaleni della nostalgia
sulla corda azzurra dell’aria.
Io per la marea lenta, che riempie
i mormoranti arcipelaghi
della grande domenica in ozio.
Domani, lontani, molto lontani.
Disuniti per sempre,
per altre goccie che ci prenderanno
nelle combinazioni fluviali del destino.»

 

La poesia di Luciano Folgore riesce a donarci un sorriso e un briciolo di felicità.

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