Carne e sangue di Vito Davoli, Tabula fati, 2022

di Sandro Marano

 

Vito Davoli, poeta e critico letterario, redattore della prestigiosa rivista “La Vallisa” e coordinatore dell’omonimo blog, fondatore e curatore, insieme a Daniele Giancane, della rivista “Pubblicazioni letterariae”, già docente nelle scuole medie superiori per poi dedicarsi all’attività imprenditoriale nel settore della moda, ci presenta la sua seconda silloge poetica “Carne e sangue” (Tabula fati, 2022).

L’autore aveva già esordito vent’anni fa con “Contraddizioni” (edizioni Leucò, 2001), un testo recentemente riproposto, nel quale aveva già delineato il suo mondo poetico, che è “una trama meditativa intrisa non solo di razionalità, ma anche di sensualità, gusto coloristico e capacità di sognare” (Marco Ignazio de Santis).

La terra e la donna, la precarietà di tutte le cose, il rigetto delle certezze “preconfezionate”, l’ansia di cercarsi: questi i suoi temi cardine, rappresentati spesso con efficaci metafore e con un linguaggio copioso, avvolgente, tra tenerezza e carnalità, che trova, a nostro avviso, il suo apice in liriche come Notturno, Domenica mattina Nunzia è Sahara, Notturno della stanza e della terra, Ha ripreso a scrosciare.

Come esempio del “colore” dei suoi versi ne citiamo alcuni tra i tanti, che rivelano tra l’altro la conoscenza profonda dei poeti e della lingua spagnola: “lancio pinoli al vento / fino agli assonnati argini della tristezza”; “Le verità universali / un gatto le graffia in un bidone / alle sette della sera / ballando un valzer lento”; “La luna conta tegole di tetto / piange sui tetti lacrime d’argento / strozza la notte / in un rigagnolo di solitudine”; “Ridatemi l’ardore che sfida le cinigie / nella campagna fresca di febbraio”.

In Carne e sangue Davoli prosegue il suo discorso poetico senza soluzione di continuità rispetto a Contraddizioni, magari con un’accentuata complessità e ambivalenza del dettato poetico e talvolta con un eccesso di verbosità.

Ha certamente ragione Daniele Giancane che ravvisa nel poeta Davoli “una tendenza dialogante”, in cui il tu è riferito ora alla donna amata ora al proprio sé ora alla vita in generale, tanto da poter considerare questa raccolta “un canzoniere d’amore”.

Prendiamo la lirica Come in un attimo: “Ti ho cercata come un archeologo / le impronte di altri tempi, / […] lì ti ho scorta / sulle erbe umide della Murgia spiovuta, / su clandestini cofani di auto a luci spente nella notte / dove le stelle sono un’ambizione e mai la casa. / […] I tuoi alfabeti non decifrerò”. Qui la donna, la terra, il destino si fondono e si confondono fino alla confessione rassegnata del verso finale. Il poeta rischia di perdersi nel flusso caotico del vivere: “Tutt’attorno infinito è l’amplesso / dell’orizzonte e del tempo”. E tuttavia non se ne duole: “Nessun timore a raccontare il mondo / né della voglia di addentarlo forte”. Non si vergogna della sua rabbia verso le storture presenti nel mondo, né vuole imbrigliare la sua gioia nei consueti canoni. Accetta la fugacità (e forse la frequentazione del mondo della moda non è estranea a questo suo atteggiamento).

Così si rappresenta nella poesia Fugacità, che ha l’andamento serrato di una fuga di Bach, di cui riportiamo l’incipit e i versi finali: “I pini al vento / Fanno scena ai tuoi occhi bramosi / Ai miei occhi assetati, / Inappagati di te, / Alle mie mani / Alle tue mani / Aperte e tese a un raschio disperato / Livide e chiuse a una carezza lieve / […] E perdersi ancora / Se ancora lo vuoi / nell’incertezza di una vita fugace / A cui strappare umanità / Nell’apatia di una vita banale / Da rianimare con fugacità”.

C’è nel poeta che è Davoli, come nota Mauro De Pasquale, “uno spirito anarchico” che lo porta ad una ”ansia di liberazione”. C’è una voglia di vivere la vita nella sua pienezza, malgrado la sua fugacità, malgrado le inevitabili sconfitte, malgrado la fine degli amori, perché “il sacrificio è trascinare giorni / senza se stessi”.

 

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