La sceneggiata napoletana in ‘O guaio di Salvatore Di Giacomo

di Italo Spada

 

Nel 1886, Salvatore Di Giacomo pubblica, con il titolo di ‘O fùnnecco verde, una raccolta di sonetti aventi come argomento i pregi e i difetti di Napoli e dei napoletani. Di Giacomo concepisce questi sonetti come minisceneggiate, dove ciò che avviene è raccontato da terze persone. La didascalia, che precede il sonetto vero e proprio, serve ad ambientare la storia e a presentare i personaggi. Le battute sono senza pause, una dopo l’altra, quasi sovrapposte tra di loro non solo per rispettare la lunghezza del verso (esigenza metrica), ma anche per fotografare un tipico modo di parlare della gente soprattutto in momenti di agitazione. Ovviamente, per rendere più aderenti alla realtà i suoi ritratti popolari, non poteva non servirsi del dialetto, anche se questa scelta preclude a chi non è napoletano la completa ed esatta comprensione delle frasi, la ricchezza della tradizione nascosta nei modi di dire, nelle metafore, nei doppi sensi.

Nel sonetto che qui si prende in esame, per esempio, è bene precisare che il “fondaco”, a Napoli, è un cortile in mezzo ai vicoli, dove la gente chiacchiera e lavora, smercia e bisticcia. Talvolta, qualche bisticcio degenera in rissa e, se ci scappa il morto, diventa un fattaccio, un guaio.

La prima battuta di ‘O guaio arriva dalla strada, come voce fuori campo del “personaggio-popolo”, ma il lettore l’avverte come “soggettiva sonora” di Peppina e Lucia Aiello. Soggettiva sonora non ancora chiara e distinta che si ripeterà subito dopo nel verso 4 presumibilmente con diversa tonalità, tanto da indurre Lucia a dire alla madre che se ne stava appisolata accanto al fuoco: “Lo sentite, adesso, mamma?”

La tragedia entra in casa Aiello con la polizia che chiede alla donna se è lei Giuseppa Aiello e se Peppeniello è suo figlio. Il confronto tra chi fa domande per mestiere e chi dà risposte con coinvolgimento emotivo è reso da Di Giacomo con la perizia dello sceneggiatore consumato. Alla freddezza del poliziotto abituato a svolgere quel genere di indagine (Siete voi Giuseppa Aiello?… Avete un figlio?…) e di fredda professionale comunicazione (Ha avuto quattro colpi di coltello!), fa eco l’urlo crescente delle donne infarcito di invocazioni religiose (Che è stato? Gesù! Madonna! Figlio mio! Fratello mio!). Nel fondaco e nei vicoli di Napoli – ma si potrebbe dire in tutto il Sud – la vita privata di una famiglia è legata a quella collettiva del vicinato. Con la stessa facilità con la quale si bisticcia e si critica, ci si aiuta a vicenda e si condividono gioie e dolori. È, per dirla con Verga, la vita delle formiche che resiste ad ogni burrasca[1]. Una vita che porta spontaneamente alla recita di un copione che tutti sembrano conoscere bene, soprattutto nelle battute “a soggetto” e nei “fra sé”[2].

Bella, infine, la soluzione adottata nell’ultima terzina per non sacrificare il contenuto della sceneggiata all’esigenza di sintesi del sonetto. La madre dell’accoltellato (o la sorella? o tutte e due?) non chiedono al poliziotto notizie sullo stato di salute del loro congiunto, né sembrano interessate a conoscere il motivo dell’aggressione. È come se sapessero che il fratello e figlio bello non è proprio uno stinco di santo. Probabilmente, in famiglia, avevano messo in conto anche l’eventualità di una disgrazia che, prima o poi, sarebbe arrivata. Ora che ‘o guaio è realmente accaduto, vogliono sapere solo chi è stato l’accoltellatore e chiedono che venga fuori il nome dell’infame. Quando quel “certo Ciro Giglio”, già individuato dalla forza pubblica e forse già arrestato, esce dall’anonimato del suo nome (quanti Ciro ci sono a Napoli?) e dalla falsità del suo cognome (Giglio? Altro che giglio!), allora non possono fare altro che urlare contro o malamente, o fetiente, o figghintròccola  la loro disperazione di madre e di sorella.

È l’inizio della sceneggiata numero due, tutta da sviluppare in un secondo momento e da vedere alla prossima occasione sullo schermo dello stesso vicolo.

 

‘O guaio

Peppina e Lucia Aiello, mamma e figlia, assettate vicino ‘o ffuoco.

Peppina s’è addubbecchiata[3]. Voce da la strada:

 

–       Arresta! Arresta!… Ferma!… – Uh, mamma mia!

Che sarrà?… Vuie sentite?… Che sarrà?…

Scetateve![4] – Farranno… pe… pazzia…

–       Arresta! Arresta! – Vuie sentite, oi ma’?

 

–       Secutano [5] a quaccuno mmiez’ ‘a via…

Iamm’a vede’[6] – No… che n’avimma fa’?

Bene mio! Sta saglienno ‘a pulezzia![7]

Giesù, ch’è stato?!… Oi ma’!… Ma’!… Ascite ccà![8]

 

–       Ch’è stato? – Siete voi Giuseppa Aiello?

–       Sissignore, signo’… – Ci avete un figlio?

–       Nu figlio… sissignore… Peppeniello…

 

–       Ha avuto quattro colpi di cortello…

–       Madonna!… – E ‘a chi?… Da un certo Ciro Giglio.

–       Figlio mio!… – Frate mio!… – Figlio mio bello!…

 
 

Voci Fuori Campo

soggettiva sonora

 

Voci F.C.

 

 

soggettiva visiva

 

campo – controcampo

 
 

Note:

in grassetto: voci fuori campo e del poliziotto

in corsivo: battute della madre, Peppina

normale: battute della figlia, Lucia

 

[1] “Di tanto in tanto il tifo, il colera, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che non esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.” (G. Verga, “Fantasticheria”)

[2] Il “fra sé” è un’indicazione che nel copione teatrale viene data all’attore per la pronuncia di battute a voce bassa, o di pensieri da esternare. In realtà, giacché gli spettatori devono sentire e capire, si tratta di una simulazione, di un gioco accettato da tutti e la battuta viene pronunciata dall’attore con diverso tono, ma sempre a voce alta.

 

[3] appisolata

[4] svegliatevi

[5] inseguono

[6] andiamo a vedere

[7] sta salendo la polizia

[8] uscite qua

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