Carne e sangue di Vito Davoli, Tabula Fati 2022

di Marco Cinque[1]

Non oso azzardarmi in una retorica, noiosa e magari persino inutile analisi letteraria per questa nuova raccolta poetica di Vito Davoli. E forse già il titolo, Carne e sangue, dovrebbe sconsigliare un simile approccio. Ho anche pensato che un titolo come questo corra davvero il rischio di essere un deterrente per lettori che hanno della poesia una visione idealizzata ed eterea.

Addentrandomi in questo corpo poetico, attraversando le fibre dei suoi muscoli e scorrendo nel suo sistema venoso, ho avuto come la percezione di una sorta di viaggio di destrutturazione e di ricomposizione della materia poetica, come se l’autore si volesse in qualche modo disfare da tutto ciò che ha appreso – o è stato costretto ad apprendere – ma allo stesso tempo volesse ricostruire un mondo poetico che non sprechi nemmeno una briciola del proprio vissuto, degli insegnamenti avuti, delle gioie, dei dolori, dei sogni, delle disillusioni.

Emergono nei versi molti richiami classici, che interagiscono con un sapore “rock” e attuale che dà il ritmo ai testi, come si volessero integrare tra loro  tempi e vissuti passati, presenti e futuri. Come se la musicalità classica e la ritmica moderna diventassero un tutt’uno inscindibile, materiale e tangibile, fatto, appunto, di carne e di sangue. Non uno spirito indistinto, ma un corpo pulsante di poesia.

Leggendo i versi di Vito, pagina dopo pagina, sono come tornato ai tempi in cui manipolavo la materia, cercando in essa qualcosa che avesse un senso o una risposta concreta alle mie domande teoriche. Ed è stato come tornare seduto al tornio di quel vecchio istituto statale d’arte romano di via del Frantoio, mentre circondavo con le mani una palla d’argilla, dandogli una forma mai doma e sempre diversa, che ogni volta cresceva, si allargava, si restringeva, cambiava, a volte si rompeva. E come in quel tornio potevo sentire la consistenza e il profumo della creta, così ora ho potuto percepire la carnalità e lo scorrere vivo del sangue nelle poesie di questa raccolta materica.
Credo che questo lavoro sia come il frutto di un parto dopo un lungo travaglio, dove Vito Davoli non ha solo e semplicemente scritto un libro di poesie, ma ha anche costruito il vaso della sua esistenza con le sue stesse mani. Un vaso da cui poter spillare versi, morsi di carne e sorsi di sangue. Perciò non posso che dirgli grazie per avermi saziato e regalato questa sbornia tanto generosa.

 

[1]

Marco Cinque, poeta, scrittore, attivista, musicista e intellettuale romano, nasce a San Basilio, borgata della periferia di Roma, il 4 settembre 1957. Negli anni ’70 ha partecipato alla fondazione della prima trattoria autogestita di Roma, nel quartiere popolare di Testaccio, con un gruppo di 18 ragazze/i.

Come educatore ha lavorato nell’area del disagio giovanile, in progetti di formazione (AISE-ENAIP) realizzati nelle periferie di Roma, finanziati dalla regione Lazio e dalla Comunità Europea.

Ha promosso numerosi progetti, tra cui la campagna nazionale Adotta un condannato: adozioni epistolari di prigionieri detenuti nei bracci della morte statunitensi, oltre che numerose iniziative anche in molte carceri italiane, con laboratori di scrittura e musica.

Intensa la sua attività di scrittura, fotografa, musica, recitazione, saggistica, antologica e giornalistica.

Ha pubblicato più di 30 libri tra cui ricordiamo Muri e mari, Ensamble Edizioni, Roma 2019, con introduzione di Jack Hirschman al quale nel 2022 dedica la sua opera più recente Elegia del Rosso, Multimedia Edizioni, Salerno 2022. Prefatore, curatore e antologista, è stato tradotto in diverse lingue tra cui inglese, spagnolo, francese e albanese. È giornalista presso Il Manifesto come editorialista sui temi dei diritti umani e sulla discriminazione delle minoranze etniche. Cura anche gli inserti culturali di Alias (settimanale) e Le Monde Diplomatique (mensile). Collabora con le testate giornalistiche online Ytali e Pagine Esteri, oltre che con il sito letterario Potlatch.

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