Pär Lagerkvist e il silenzio di Dio

di Sandro Marano

 

«Ascolto il vento che di nuovo spazza le mie orme.

Il vento che nulla ricorda

e niente capisce o di ciò che fa non si cura,

ma che così bello è ascoltare.

Il vento tenero,

tenero come l’oblio.

All’albeggiare del mattino nuovo

io proseguirò oltre.

Nell’alba immota il mio cammino riprenderò

col primissimo passo

sulla mirabilmente vergine sabbia.» 

 

Questa poesia è tratta da La terra della sera (1953), l’ultima raccolta poetica di Pär Lagerkvist (1891- 1974), scrittore, drammaturgo e poeta svedese, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1951. Con la pubblicazione del suo capolavoro, il breve intenso romanzo Barabba (1950), il poeta ebbe anche una certa notorietà presso il grande pubblico, tanto che nel 1962 fu tratto l’omonimo film interpretato da uno straordinario Antony Quinn.

Ma che cosa rappresenta il vento? È forse un segno del divino? Allora perché non ci parla? O, almeno, perché non ci parla più chiaramente? Certo, ci fa dimenticare per un po’ le nostre opere e le nostre domande, ci dona una sorta di tenerezza, ma è la tenerezza stessa dell’oblio. E noi comunque dobbiamo riprendere il nostro faticoso cammino, il nostro interrogare.

La terra della sera riassume l’itinerario filosofico e poetico di Pär Lagerkvist e si incentra su un solo tema fondamentale, tanto da sembrare monocorde: il silenzio di Dio. Al contrario di Michelangelo che nel famoso affresco della Cappella Sistina rappresentava Dio e Adamo con le dita che stanno per toccarsi, quasi a voler rimarcare la presenza del divino nella vita dell’uomo, Lagerkvist nelle sue poesie ci parla dell’assenza di un Dio cercato, bramato, di cui forse s’indovinano o si immaginano le tracce. Come nella bellissima poesia che chiude la raccolta:

 

«Nel tranquillo fiume della sera

vidi il luogo nel quale un tempo egli il suo volto rispecchiò

nel momento dell’addio, prima di proseguire  oltre.

Il vento me lo mostrò,

il vento triste che su suo ordine cancellò l’immagine sua sull’acqua

e ancor soffre d’averlo dovuto fare.

Malinconicamente mi raccontò di lui,

del suo volto, che sfiorato aveva

e della sua immagine nel fiume della sera

prima  che s’oscurasse e la tenebra calasse

come adesso.

Su una zattera di giunchi s’allontanò.

Perché me ne sto ancora sulla riva ch’egli tanto tempo fa ha lasciato?».

 

Affine per spirito e tematica al grande regista svedese Ingmar Bergman, Pär Lagerkvist è ossessionato dal silenzio di Dio. Il regista Bergman mette in bocca al cavaliere de  Il settimo sigillo  (1957) queste parole:

«Cavaliere: Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, mi sveli il suo volto, mi parli.
Morte: Il suo silenzio non ti parla?».

E Lagerkvist a sua volta si confida tra un sussurro e un grido:

 

«Io volevo conoscere

ma potei solo interrogare,

io volevo la luce

ma potei solo bruciare.

Aspiravo all’immensità

e potei solo vivere.

Mi rammaricai.

Ma nessuno capì cosa intendessi.»

 

In uno dei Quaderni di appunti risalenti agli anni ’40 del Novecento Lagerkvist scriveva: «Che senso ha la vita umana? E che senso ha avuto la mia? Perché ho dovuto vagare sotto le stelle?  Per interrogare invano.  E tuttavia è la sola cosa per cui valga la pena interrogare. Tutto il resto sono domande indifferenti rispetto a questa sola. Perché esisto? Perché sono vissuto?». In questa semplice e irrisolta domanda, variamente modulata, si racchiude l’intera opera dell’autore svedese  oscillante di volta in volta tra scetticismo e incredulità da un lato e volontà romantica di assoluto dall’altro.

E la sua poesia ha un tono esistenzialistico che si pone a metà strada tra l’esistenzialismo ateo dei Camus e dei Sartre e quello religioso degli Jaspers e dei Marcel, ed è forse affine, più di quanto sembri, alla prima fase esistenzialista della filosofia di Heidegger (non rappresenta forse Barabba l’ente che si pone la domanda fondamentale sul senso dell’essere senza trovare una risposta?).

La sua poesia è tutta un’invocazione a un Dio, da cui si attende con ardore, ma invano, un segno, a un Dio che si teme non possa rispondere o, peggio, si paventa che sia soltanto un’illusione dell’uomo. Non a caso, lo scrittore svedese si definì, con un efficace ossimoro, un credente senza fede.

Scrive il suo traduttore e curatore Franco Perrelli: «Lo scenario del pellegrinaggio dell’uomo che cerca il suo Dio e Dio che cerca le sue creature è il cosmo, l’ordine meraviglioso delle cose  e insieme la loro apparente indifferenza, i silenzi, le desolazioni, la solitudine delle stelle, dei pianeti, della terra, […] ciò che colora questi paesaggi è l’interrogazione e l’ansia, che riescono talvolta ad accendersi in provvisoria quanto intensa preghiera».

Riportiamo una delle poesie-preghiere più significative del poeta svedese:

 

«Tu che esistevi prima dei monti e delle nubi,

prima del mare e dei venti.

Tu il cui inizio è prima dell’inizio di ogni cosa

e la cui gioia e dolore sono più antichi delle stelle.

Tu che eternamente giovane vagasti sopra le vie lattee

e attraverso le grandi tenebre fra di esse.

Tu che eri solo prima della solitudine

e il cui cuore era colmo di angoscia molto prima del cuore degli uomini – non mi dimenticare.

Ma come potresti tu ricordarmi.

Come potrebbe il mare ricordare la conchiglia

nella quale una volta mormorava».

 

All’interrogazione dell’uomo risponde il silenzio, la solitudine, il deserto. Preziosa è comunque l’inquietudine.

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