Il Premio Viareggio, Flavio Santi, a Taranto per parlare di Quasimodo e Leonida

di Barbara Gortan

 

Di una cosa Leonida di Taranto è assolutamente certo: la poesia gli darà gloria e il suo nome resterà immortale nei tempi. Di questo è grato alle Muse che, in cambio delle sofferenze delle pene, gli dettero il dono più prezioso, quello della poesia. Il poeta Salvatore Quasimodo dopo aver tradotto l’Antologia Palatina, tradurrà e continuerà ad approfondire la poesia di Leonida di Taranto, sarà legato a lui profondamente. Ce ne parla il poeta Flavio Santi, che il 15 dicembre scorso è stato a Taranto, ospite al Mudit per presentare la sua raccolta di poesie “Quanti”, opera vincitrice del Premio Viareggio 2021. Ecco la sua relazione su Leonida e Quasimodo.

(da sx: Flavio Santi e Aldo Perrone, presidente del Gruppo Taranto)

Ho avuto l’occasione, grazie alla critica letteraria Maria Corti, un’amica della Puglia molto legata al Salento, di occuparmi delle carte autografe del poeta Salvatore Quasimodo. Nel 1999 riuscimmo come fondo manoscritti di Pavia ad acquisire un grosso patrimonio cartaceo, sia di manoscritti con la sua grafia, che dattiloscritti, scritti a macchina. Ebbi l’opportunità di occuparmi del Quasimodo traduttore anche poi per la mostra che facemmo sempre quell’anno nel1999 a Milano a Palazzo Reale. Fu molto importante, uscì anche un catalogo, io curai la sezione delle traduzioni. Capii l’importanza del Quasimodo traduttore, sul poeta non ci sono dubbi, sul Quasimodo traduttore magari c’era qualche perplessità, invece veramente mi resi conto che il Quasimodo traduttore è alla pari se non più grande del Quasimodo poeta. Le due cose convivono: è un grande poeta perché è un grande traduttore.

Vorrei riflettere sulla grandezza di Quasimodo traduttore in relazione gli epigrammi del poeta greco antico Leonida di Taranto, nato a Taranto nel 330 o 320 a.C. e morto ad Alessandria d’Egitto, 260 a. C. Circa. Leonída o Leonida, a seconda della pronuncia greca o latina. Non è casuale che Quasimodo insista su Leonida di Taranto. Il primo incontro avviene nel 1956 circa e lui riceve il compito di tradurre alcuni epigrammi della Antologia Palatina, all’interno dei quali ci sono alcuni epigrammi importanti di Leonida. Questo è il primo incontro fondamentale, è una folgorazione, perché capisce che l’epigramma è una specie di sintesi della poesia. A tal proposito vorrei leggervi due righe di Giovanni Pascoli. Anche lui fu un grande traduttore, è una cosa da sottolineare, non a caso spesso i grandi poeti sono anche grandi traduttori. Lo scambio di idee tra la poesia e la traduzione è molto fecondo e molto importante. Pascoli stesso influenzò fortemente Quasimodo all’idea di traduzione e a un certo punto dice una cosa che conferma quello che vi dicevo io : l’epigramma è una specie di sintesi suprema della poesia. Il piccolo epigramma che fino all’origine era una iscrizione funebre, che nasce veramente come una descrizione tombale, divenne la forma più amata di poesia e servì all’amore, all’odio, alla satira scherzosa, e alla riflessione severa. Si ripete in un certo modo la storia dell’elegia. Pascoli sottolinea questo aspetto che nell’epigramma c’è tutto quello che la poesia può dire: amore, morte, satira, e la descrizione del quotidiano e questo aspetto dell’epigramma Quasimodo lo coglie benissimo, quando riceve il compito di tradurre degli epigrammi dell’Antologia Palatina. L’influenza di Leonida e degli epigrammatisti è importante, aumenterà e questo è un aspetto molto interessante, ma mentre gli altri epigrammatisti vengono tradotti per questa Antologia Palatina che esce nel 1958, e poi abbandonati, il dialogo con Leonida di Taranto prosegue. Quest’importanza dell’epigramma torna nelle poesie di Quasimodo, “Il falso vero verde”, raccolta poetica che scrisse mentre traduceva l’Antologia Palatina. L’ultima sezione la intitola “Epigrammi”, c’è ne sono due: uno “A un poeta nemico”e l’altro “ Dalla rete dell’oro “, che sembrano due epigrammi di Leonida, lui ne coglie lo spunto e lo spirito.

 

Sulla sabbia di Gela colore della paglia

mi stendevo fanciullo in riva al mare

antico di Grecia con molti sogni nei pugni

stretti e nel petto.

Là Eschilo

misurò versi e passi sconsolati

in quel golfo arso l’aquila lo vide

e fu l’ultimo giorno.

 

L’allusione è qui alla leggenda greca secondo cui Eschilo mentre passeggiava sulla spiaggia di Gela fu avvistato da un’aquila che teneva tra gli artigli una tartaruga e la lasciò cadere sul capo del poeta, scambiando per una pietra la sua calvizie, e in questo modo lo uccise. l’epigramma così si conclude:

 

[…] Uomo del Nord, che mi vuoi

minimo o morto per la tua pace, spera :

la madre di mio padre avrà cent’anni

a nuova primavera. Spera Ch’io domani

non giochi col tuo cranio giallo per le piogge.

 

Questo spirito un po’ funebre ma anche scherzoso è lo stesso che si ritrova in quei bellissimi epigrammi con degli aspetti moderni di Leonida di Taranto che Quasimodo sceglie.

L’altro epigramma è un verso solo che dice:

“Dalla rete dell’oro pendono ragni ripugnanti”

 

Abbiamo un epigramma più lungo che va verso l’elegia e uno molto sintetico. Lo scrivere epigrammatico ha influenzato ampiamente Quasimodo in questa raccolta. Nella raccolta successiva che è “La terra impareggiabile” del 1958 c’è un altro componimento che si intitola “Quasi un epigramma”, l’idea di epigramma torna e addirittura anche qua conclude: la terra è impareggiabile con due epigrafi. Una è dedicata ai Caduti di Marzabotto e l’altra dedicata ai Partigiani di Valenza. Gli epigrammi  di Leonida di Taranto sono importanti per il Quasimodo poeta, in lui c’è una grandissima modernità, si parla di amore, di morte, di cose concrete, c’è una grandissima varietà, è un poeta moderno. Pezzi strepitosi barocchi, penso a quegli epigrammi costituiti dagli epitaffi per coloro che hanno passato la loro vita in mare e in mare sono morti. Quello in cui il povero pescatore è sepolto in due posti, dilaniato in due, una parte in mare, e la parte anteriore del corpo sepolta in bocca a uno squalo. Un’intuizione che anticipa di secoli e secoli il nostro barocco. Quasimodo traduce Leonida di Taranto scardinando la struttura originaria, il poeta greco scrive in esametri e pentametri, Quasimodo decide di tradurli in decasillabi, settenari, quinari, adattando alla propria sensibilità italiana, non facendo un’operazione di metrica barbara come avrebbe fatto Carducci. Sente la necessità di restituire i versi in italiano, rendendo la poesia ancora più movimentata, ancora più rapida, veloce, ancora più moderna. I versi con questa traduzione aumentano, se quelli originari erano otto poi diventano dieci, crescono.

Andatevene topi, da questa capanna:

nutrire topi non può la misera dispensa di Leonida.

Al vecchio basta avere il sale e due pani di farina grezza:

fin dal tempo degli avi questo vitto lodammo.»
(VI 302)
 

Modernizza, rende contemporaneo Leonida. Vi faccio l’esempio più evidente su un epigramma  che chiarisce benissimo l’operazione, perché sull’originale “ fuggite dalla capanna topi notturni” in  plurale, in Quasimodo diventa “ ia dalla mia tana topo notturno” diventa un unico topo, quasi lo  personalizza. È moderno, toglie il verbo “fuggite” e lo sostituisce con un avverbio ”…via dalla mia tana”. Calube che sarebbe nascondiglio, capanna, lo modernizza e lo traduce tana. Nel povero armadio di Leonida è in grado di nutrire i topi

Quasimodo allunga e modernizza e rende universale questo concetto non usando il termine madia, che qualcuno non avrebbe capito, ignorante della civiltà contadina, ma“ nella misera dispenda di Leonida c’è poco”. Sintetizza ed elimina alcuni elementi che lui sente pesanti e modernizza, perché il lettore di Leonida degli anni sessanta riesca a sentire il poeta come suo contemporaneo. La poesia per funzionare deve essere una poesia universale letta un secolo fa o nel tremila deve funzionare sempre.

Leonida è un grandissimo creatore di parole nuove, di combinazioni poetiche inusitate, inaspettate, e scrive abios, bios che alla lettera sarebbe la vita senza vita. Quasimodo contamina l’antica civiltà greca anche con la Bibbia, con l’idea di vanità, vanitas vanitatum. È un colpo di genio, a un certo punto si parla di abios, bios alla lettera appunto sarebbe la vita senza vita, diventa la vana vita. Fa dialogare il mondo antico e il mondo protocristiano, molto biblico, questa è un’altra intuizione molto interessante di Quasimodo. Questo Abios bios resterà nella testa di Quasimodo, una sua poesia si intitolerà thánatos chorís thánato, morte senza morte. Gli resta in mente e lo ribalta e lo trascina nella cascina della sua poesia personale.

Usa delle immagini per le sue poesie che sono immagini che si ritrovano in Leonida, il colore della paglia, l’immagine del ragno arrotolato.

Infinito fu il tempo umano, traduce Quasimodo, il verso originale di Leonida dice invece il tempo che vale diecimila volte. I Greci rendono quantitativo il tempo, per dare un’idea di indeterminato, avevano bisogno di appoggiarsi ai numeri. Qualcuno ha detto che questi presocratici epigrammisti sono intraducibili, perché i concetti che hanno pensato non sono applicabili nella nostra civiltà, andrebbero letti soltanto nel testo greco. Questo è un paradosso per dire che sono delle mentalità diverse.

Io dico sempre che il traduttore è un pontefice, nel senso etimologico, è un costruttore di ponti. Il compito del traduttore è unire due mondi, costruire dei ponti, unire due sponde, unire due civiltà.

Quasimodo capisce tutta una serie di concetti legati alla traduzione che poi sono stati elaborati venti, trent’anni dopo dalla moderna traduttologia. Ha capito cose che negli Stati Uniti hanno capito cinquanta, sessanta anni dopo.

Quasimodo l’ha capito prima, la traduzione è una fonte di creazione personale, originale, non è un testo secondario, di seconda importanza. La poesia tradotta è poesia, se tradotta bene ovviamente. La traduzione è una forma di scrittura autonoma. È una forma di interpretazione come dice George Statner, trent’anni dopo che lo intuì Quasimodo, è la forma più alta di critica, di forma letteraria e poi ci sono arrivati tutti gli altri traduttologi.

Quasimodo intuì che la poesia ci permette di capire il mondo che ci circonda. Tra Leonida e Quasimodo ci sono circa 2300 anni di differenza, è una cosa vertiginosa, Quasimodo rende Leonida uno di noi, lo trasporta nella contemporaneità

Come dice Livio Andronico, poeta del 280 a.C., drammaturgo e attore teatrale di Taranto, le civiltà nascono dalle traduzioni.

La grande civiltà Latina nasce da Livio Andronico di Taranto grazie alla sua traduzione dell’Odissea, la grande civiltà tedesca nasce grazie alla traduzione di Lutero della Bibbia, la grande letteratura inglese nasce grazie alla traduzione della Bibbia del re Giacomo di king James. Il grande romanticismo si fonda sulle traduzioni. Le traduzioni creano, fondano le civiltà, collegano, fanno da ponte. La traduzione è anche una grande forma di critica, devi leggere, rileggere, il testo originale, pensare a varie soluzioni, quindi una super lettura, è una forma di critica. Tutti questi aspetti, Quasimodo li aveva intuiti e li aveva intuiti a maggior ragione, applicati su Leonida. Non è un caso che decide di ritornare su di lui e questo gli permette di confermare tutte queste grandi intuizioni, che adesso sono già più risapute grazie alla traduttologia. All’epoca Quasimodo come traduttore fu anche criticato, perché dicevano che le sue erano traduzioni troppo libere. Ci furono delle polemiche, non avevano capito la grandezza, la modernità di Quasimodo.  Quasimodo grazie a Leonida di Taranto fu un grande traduttore della modernità.

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