L’età della luna per Sinisgalli

di Sandro Marano

  

«Amici, siamo tutti vecchi,

abbiamo l’età della luna».

 

Così scrive con rassegnata mestizia Leonardo Sinisgalli in Epilogo, l’ultima poesia della raccolta L’età della luna (1962). L’”età della luna” – ci informa nella prefazione il curatore del volume Tutte le poesie (Mondadori, 2020) Franco Vitelli – è un’espressione idiomatica usata in ambienti monastici per indicare un’età indefinibile. E prosegue notando come L’età della luna sia «il libro della crisi, su un livello personale e storico, che Sinisgalli ha avuto il coraggio di rappresentare».

Certo sorprende che all’età di cinquantaquattro anni Sinisgalli dichiari di sentirsi vecchio. La vecchiaia in questo caso non allude probabilmente all’età anagrafica, alle condizioni fisiche, bensì al sentire dentro di sé esaurita la vena poetica, alla difficoltà di fare poesia in una società in rapida trasformazione, dove la civiltà tecnica (erano gli anni del boom) stava ormai prendendo il sopravvento sulla civiltà contadina, che per il poeta lucano coincide con l’età delle rose, l’età felice dell’infanzia e dell’adolescenza.

L’età della luna, con i suoi testi che mescolano prosa e poesia, è meno un libro riuscito di poesia che un documento di una crisi esistenziale e storica.

«C’è un’impercettibile / frana nell’ordine delle cose» (La visita, in L’età della luna), scriveva il poeta. E certo nel breve volgere di pochi anni quella impercettibile frana non solo si sarebbe palesata a tutti, ma si sarebbe pure aggravata.

Se raffrontiamo una poesia del 1939 con una del 1960, dedicate e intitolate entrambe alla stessa via, Via Velasca, ci accorgiamo subito del mutato stato d’animo del poeta e dell’avvenuto distacco tra la sua prima maniera e la seconda:

 

«Questa è l’ora mia, la mia ora diletta.

Io ricordo la sera che alla fioca

Luce si spense ogni rumore, un grido

Disse il mio nome come in sogno e sparve.

La via s’incurva, sgocciola

Il giorno dalle cime dei tetti:

Quest’ora dolce suona nel petto.

Non è che una larva restia

La luce, un barlume: entro la boccia

Di vetro un pesce illumina»

(da Vidi le muse)

 

«Tra botteghe e insegne

cerchi un ricordo un odore 

una lapide un segno

nella via demolita.

Hai piene le tasche della vita. 

Sporco di fumo, esule, a stento 

ti pieghi a stringere i lacci. 

Hai piene le tasche di vento»

(da L’età della luna).

 

Il poeta lucano sente di non poter più scrivere versi come al tempo di Vidi le muse (1943). E se nella guerra e nel dopoguerra con I nuovi Campi Elisi (1947) la sua poesia si evolve in senso discorsivo (emblematica è l’elegia Lucania) – evoluzione del resto comune a tanti rappresentanti dell’ermetismo – gli sviluppi successivi ai Nuovi Campi Elisi e alla Vigna vecchia «segnano un netto ed esclusivo ritorno alle predilette modalità epigrammatiche, spinte anzi verso una sempre maggiore, quasi stremata gratuità, che la grande eleganza non compensa» (Pier Vincenzo Mengaldo).

Ma è la funzione del poeta che entra in crisi. Lo stesso poeta ne era consapevole. In una poesia de La vigna vecchia (1952), intitolata Post scriptum avvertiva:

 

«A mezza età

il poeta sopravvive. La sua fortuna

durò  un soffio, un lampo

la sua grazia».

 

Basteranno le parole del poeta a fermare il tempo? A serbare nella memoria momenti e luoghi del cuore? E la tecnica con i suoi rivolgimenti e, più ancora, con le sue distruzioni non cancellerà o trasformerà quei luoghi vanificando i ricordi di un tempo felice?

Non a torto Franco Vitelli nelle conclusioni osserva che Sinisgalli  «ha vissuto il trauma della modernità. La poesia ha portato lenimento alla sua pena; per lui e quelli della sua generazione scrivere versi ha aperto i segreti dell’animo stabilendo un rapporto fraterno e confidenziale con il lettore».

Non deve meravigliarci dunque che la produzione di Sinisgalli successiva a La Vigna vecchia sia poeticamente di scarso rilievo. C’è però, a nostro avviso, una rilevante eccezione costituita dalle Imitazioni dall’antologia palatina (1980).

Sinisgalli ritrova infatti la grazia e la forza della poesia nelle versioni di alcune liriche scelte dall’Antologia palatina. Nell’introduzione il poeta lucano dice di aver appreso in tarda età il greco antico grazie anche al figlio liceale. Seguendo le orme e forse in competizione con l’amato Quasimodo, che aveva dato alle stampe la traduzione dei Lirici greci, Sinisgalli reinterpreta nei suoi modi espressivi, con un linguaggio più quotidiano rispetto a quello classicheggiante di Quasimodo, i testi di alcuni poeti greci. Non si tratta, va sottolineato, di mere traduzioni, ma di versioni originali in cui sgorga a piene mani la poeticità. Nei poeti greci di tanti secoli prima Sinisgalli aveva finalmente incontrato spiriti affini, in linea con i temi a lui cari e col suo stile epigrammatico.

 

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