Il salice del borgo antico di Anna Cellaro, Youcanprint, 2023

di Cosimo Rodia

 

Il salice del borgo antico dell’avvocato Anna Cellaro è un consuntivo esistenziale, lei così incuneata da protagonista nella modernità,  e l’ubi consistam della silloge è già impresso nei versi inziali: «Ci sono i miei occhi di bambina/appesi ai sogni di quelle finestre/nel grande piazzale appena fuori da via Campanile/la grande pergola nel giardino di mio nonno», che chiariscono subito al lettore che ci troviamo di fronte a versi nostalgici, in cui le immagini impresse nella memoria sono fortemente identitarie, e la cui potenza motivante emerge ancor più nel confronto col presente magmatico e disancorato.

Così l’Autrice presenta luoghi, identificabili con quello di nascita: «Ci sono vicoli di mondo/dove riecheggiano vecchi suoni/cingoli di carri[…]/ombre tra labili fiammelle./[…] ai margini dell’incisione meteoritica/lungo il filo impetuoso dell’abbeveraggio»; presenta i sogni che motivavano la sua giovinezza, gli attori, i fatti minimi quotidiani, come tanti fotogrammi portati nel cuore o deposti in una teca carico di «pathos».

Il paesaggio, apertamente connotato, è anche luogo dell’anima, identità conservata intatta; così vengono sciorinati, ad esempio, in un rapporto di presente/passato o passato/presente, la sinfonia di colori e odori delle orchidee selvatiche, delle anemoni, delle rose canine…

In “Nel gomito di un ramo” lo scenario appare come fosse un dipinto impressionista con la sera, la luna e i riflessi. In “Sigillo di bocca” troviamo, come in una istantanea, le varie fasi della vita con la conclusione che essa è «un sogno d’aquilone» con la chiusa che ha un sapore consolatorio per il dono d’amore scintillante nell’universo.

Impregnata di civiltà terragna, l’Autrice parla con dolcezza della figura del padre, che già defunto vive nelle piante che egli ha messo a dimora, così ella solo a toccarle, sinesteticamente le arriva il profumo delle sue sigarette (in “La mia casa raccolta in mezzo ai pini”).

Il patrimonio valoriale della Civiltà contadina è fissato anche nel ricordo del nonno (“Con una mano stringeva”) con l’immagine, quasi pittorica, della tavola imbandita di conserve e del cerchio magico familiare, che l’Autrice ricorda come «vita» vera. Le stesse atmosfere identitarie sono rapprese in “L’ombra del volo” in cui la mietitura manifesta il miracolo della terra nel partorire i suoi doni significativi. E sempre collegato alla terra e alla ciclicità del tempo, troviamo (in “Settembre è promessa del ritorno”) un autunno nostalgico perché si chiude un ciclo, ma il contadino è consapevole della necessità del ricominciare.

In più momenti, gli aspetti paesaggistici funzionano come correlativo oggettivo. In “L’aria è ferma” la vegetazione «scheletrita» non può non richiamare l’animo dell’Autrice, che quasi indossa una corona di spine, allorquando abbraccia un arbusto di «biancospino».

Lo stesso meccanismo troviamo in “Pispigliano i vecchi alberi”, in cui la solitudine del paesaggio fa pendant con la solitudine soggettiva. Anche in “Ascendono i fuochi campestri” si presenta la canicola agostana, nel cui paesaggio fisso, per i fendenti del solleone, si può cogliere una significazione estensiva della condizione umana.

Infine, non mancano alcune poesie d’amore, dolci e sensuali che si muovono tra mare e tramonti vinati: «L’ultimo bagliore di sole/mi trascina sulla tua bocca», due perfetti novenari.

È una poesia rammemorante/esistenziale in cui è cristallizzato il mito dell’immagine contadina con tutto il suo concerto simbolico: la terra, il grano, la paglia, il ricamo, i fiori, i muri a secco.

Una manifestazione che non ha preoccupazioni realistiche ma che si sofferma sul gioco dei sentimenti, nel rapporto tra generazioni diverse, tra rammemoramento e presente, tra segni e storia quotidiana.

Fanno da sfondo ai versi, gli elementi della natura: i boschi, le rocce, i campi, il mare, presentati nei vari aspetti cromatismi.

È evidente l’allusione ad un mondo ‘altro’ non più raggiungibile, perso, mitico, che scopre nel contempo le carenze nell’oggi; si vuol dire che l’oggi si manifesta ancor più nella sua provvisorietà, proprio nel confronto con quel passato, che si sdipana sul piano mitico-identitario; quel mondo è l’humus esistenziale in cui l’Autrice cerca rimandi e risposte, così attenta com’è a scandagliare anime e realtà.

Come opera prima, seppur con qualche sovrabbondanza di figurazione, Cellaro compie una bella ricerca, donando spaccati di una civiltà in cui si sapevano coltivare i sogni, si stimolava la forza di credere e di guardare il futuro con speranza.

Una poesia analogica, con frammenti di memoria rappresi in evolute linguistiche frenetiche e a volte azzardate. Nella narrazione troviamo immagini brevi, illuminazioni e tanta autobiografia; ci sono inoltre dei passaggi prosastici nella struttura argomentativa che originano degli stilemi originali, rilevando, inoltre, un’aggettivazione ricercata e un uso di figure retoriche originali, che vanno dalla metafora alla similitudine, dall’anacoluto (si veda “All’ombra l’Afa ventilata” tutta la prima sequenza non ha un verbo), all’iperbato, dall’ossimoro («trambusti silenzi») alla sinestesia («Lo sguardo è fluido») ai versi nominali.

Siamo al tentativo di liricizzare il quotidiano che assurge dai ricordi, per sovvenire in termini identitari il presente umanamente decadente.

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