L’asino, il genio, l’angelo e il diavolo

di Italo Spada

 

L’alunno normale, quello che non presenta alcun problema sotto l’aspetto disciplinare e che raggiunge la sufficienza in tutte le materie, nel cinema sembra non esistere, oppure è destinato a ricoprire ruoli secondari, di contorno. Gli alunni “cinematografi­ci”, infatti, sono gli ultimi della classe o i primi, piccoli diavoli o teneri angioletti, asini o geni.

A seconda della loro area geografica di appartenenza, inoltre, gli uni e gli altri hanno cuciti addosso speciali difetti e pregi, per cui si ha l’impressione che essi ubbidiscano a rigidi schemi, a caratteristiche precostituite e ovvie. Il ragazzo indisciplinato europeo, per esempio, si limita a compiere innocue marachelle, a marinare la scuola, a dire bugie ai genitori, a fare scherzi ai compagni e ai professori; quello anglo-americano, invece, è un piccolo boss violento e provocatore, picchia i professori e stupra le professoresse, brucia le auto e devasta la scuola, è in preda all’alcool e alla droga.

Tuttavia, quando dalla condotta si passa al rendimento, la maggio­re cattiveria dell’alunno indisciplinato americano si muta, spes­so, in maggiore riuscita. L’ultimo della classe, mentre in Francia o in Italia si limita a recuperare le lacune, in America diventa un genio. Ma vediamo in modo più dettagliato i pregi e i difetti di alcuni protagonisti, tralasciando volutamente quelli sui quali ci si è già soffermati, come i piccoli ribelli di Zero in condotta di Jean Vigo e gli scugnizzi napoletani di Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmuller.

 

Tra gli alunni asini il primo posto spetta “di diritto” a Pinoc­chio. Non tanto a quello animato di Walt Disney del 1940 (Pinoc­chio), quanto a quelli di Giulio Antamoro del 1911 (Pinocchio), di Gianni Guardone del 1947 (Le avventure di Pinocchio) e di Luigi Comencini del 1971 (Le avventure di Pinocchio).

 

Meno asini e più simpatici, meno fiabeschi e  più reali sono, invece, i deliziosi bambini di Francois Truffaut. Ispirandosi a ricordi personali, il regista francese si diverte a raccontare ne I quattrocento colpi (Les quatre cents coups) del 1959 e  ne Gli anni in tasca (L’Argent de poche) del 1976, le marachelle degli alunni francesi.

 

Protagonista del primo film è Antoine Doinel che vive in un picco­lo appartamento di Parigi con i suoi genitori. Il suo rapporto con la scuola non è idilliaco, ma tutto lascia pensare che la sua ribellione dipenda anche dai continui litigi dei suoi genitori e dalle scappatelle della madre. Rimproverato più volte dai profes­sori – in qualche caso anche ingiustamente –  egli marina le lezioni, ruba dei soldi, frequenta amici discoli, dice bugie, “inventa” la morte della madre, fugge di casa, ruba una macchina da scrivere, viene arrestato, finisce in un riformatorio, scappa definitivamente. Insomma: ne fa di tutti i colori. Eppure resta un ragazzo amabile, una specie di prototipo che assomma su di sé ciò che milioni di ragazzi hanno sempre fatto.

“L’adolescente de “I quattrocento colpi”, scrive Pietro Bianchi (in Maestri del cinema, Garzanti) non è felice in famiglia, a scuola lo trattano malissimo, è rinchiuso in riformatorio e ne fugge. Eppure è allegro come una rondine in primavera.”

 

Lo stesso si potrebbe dire anche per Gli anni in tasca. L’azione, questa volta, si svolge a Thiers, in Alsazia. Assieme al giovane maestro che sta per diventare padre (lo stesso Doinel – Truffaut ormai cresciuto?), i protagonisti sono i bambini di un intero paese, anch’essi condizionati, sia nella disciplina che nel rendi­mento, dall’ambiente familiare e dai rapporti con gli adulti. In questo delicato film Truffaut moltiplica i casi ed evidenzia, con una tecnica di storie intrecciate, ragazzi buoni e cattivi, alunni studiosi e scansafatiche. E così, dal “coro”,  spiccano  le mara­chelle  di Julien che non studia, è cattivo, imbroglia, ruba, ma solo perché a casa è picchiato dalla madre e dalla nonna e i turbamenti di Patrick, ragazzo orfano, buono, timido e affettuoso che vive con il padre paralitico e si innamora della madre di un compagno; la ministoria della figlia di un poliziotto che, per attirare su di sè l’attenzione dei vicini e per “vendicarsi” dell’intransigenza del padre, dice bugie e inventa sevizie mai subite e la deliziosa sequenza di un pupo combinaguai che per riprendere il gattino precipita dalla finestra; il gesto spregiu­dicato  dell’adolescente  intraprendente che dà baci maliziosi nel buio di una sala cinematografica e la timidezza del fanciullo che deve aspettare i giorni della colonia estiva per appartarsi con la prima ragazzina della sua vita; l’episodio dei fratelli furbastri che vorrebbero vendersi i libri di scuola all’insaputa dei loro genitori e lo scherzo subito  dall’ingenuo di turno che si fa tagliare i capelli dagli amici scatenando un litigio tra suo padre e il parrucchiere.

 

Più romantica che indisciplinata è, invece, la giovanissima Alida Valli che, nella italiana “commedia degli equivoci” Assenza ingiu­stificata  (1939) di Max Neufeld, si finge malata per non andare a scuola. La ragazza riesce nel suo intento, ma resta vittima del suo imbroglio, giacché prima sposa il medico che con complicità poco professionale copre le sue magagne e poi, in preda alla noia e alla nostalgia, ritorna a scuola di nascosto, suscitando nel marito comprensibili sospetti sulla sua fedeltà coniugale.

 

Ma l’angioletto per eccellenza del cinema italiano lo troviamo ne  Il maestro (1958) di Aldo Fabrizi, un film minore sia nella storia del cinema, che nella filmografia dell’attore-regista italiano. Qui, Aldo Fabrizi interpreta il ruolo di Giovanni, un bravo e buon maestro che svolge con passione e competenza il suo lavoro.  Un giorno, però, la sua vita ha un tremendo scossone: suo figlio resta vittima di un incidente e muore. L’episodio gli fa perdere la fede e l’interesse per l’insegnamento e lo proietta in uno stato di profonda prostrazione. Ma ecco che a scuola arriva un nuovo alunno, Gabriele, delicato e dolce. Il maestro gli si affe­ziona e, a poco a poco, riprende a vivere e a sperare. Solo quando Gabriele, esaurito il suo compito, sparisce dalla scuola nello stesso misterioso modo con il quale era apparso, Giovanni capisce che quell’alunno (il cui volto è esattamente uguale a quello di Gesù riprodotto in un dipinto) è venuto dal cielo per impartirgli una “lezione” e per fargli ritornare la fede.

Il film, che fu girato anche nella versione spagnola (diretta da Eduardo Manzanos), pur ispirandosi alla decadente “poesia delle piccole cose”, presentò un Fabrizi “regista semplice ma non certo semplicista”  (Dizionario dei Film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi) e commosse il pubblico non ancora smaliziato da trucchi ed effetti speciali.

 

Alla tenerezza e alla simpatia degli alunni europei fa riscontro l’indisciplina dei giovani americani che, nel film di John Hughes del 1986, marinano la scuola per andare in giro sulla Ferrari del padre di uno di loro per godersi Una pazza giornata di vacanza (Ferris Bueller’s Day Off) e per abbandonarsi a gesti di violenza.

Gli svogliati studenti che John Landis ci presenta in Animal House (National Lampoon’s Animal House) (1978), invece, preferiscono reagire alla peraltro giusta espulsione dal college – che per l’intero anno scolastico hanno scambiato per luogo di divertimento e di goliardici scherzi pesanti – pronunciando battute a doppio senso, organizzando un toga-party e, dulcis in fundo, scatenando un attacco paramilitare al corteo cittadino.

 

Rimandando ad altro momento (cap. IX) un esame più approfondito dei film che hanno per tema la violenza nella scuola, vediamo qui – soprattutto per sottolinearne il contrasto con i bambini di Truf­faut – il comportamento degli alunni americani nel film di Richard Brooks Il seme della violenza (The Blackboard Jungle) del 1955.

USA, anni Cinquanta: il giovane insegnante Richard Dadier (inter­pretato da Glenn Ford), felicemente sposato con Anne che aspetta un bambino, riesce ad ottenere un lavoro in una scuola di avvia­mento al “Downtown” newyorkese. Pieno di entusiasmo, Dadier inten­de l’insegnamento come “missione” culturale e sociale, ma deve fare i conti con un preside incerto e impaurito, con colleghi demotivati, abulici e indifferenti e, soprattutto, con studenti violenti, riuniti in bande e assoggettati al fascino di due lea­ders: “il biondino” e il negro Gregory Miller. Dopo essere accorso in aiuto di una collega che stava per essere stuprata e dopo avere apertamente dimostrato ai suoi alunni di non temere le loro inti­midazioni, Dadier rischia grosso. Egli, infatti, non solo viene aggredito fisicamente, ma deve anche subire le maldicenze che mettono in crisi il suo matrimonio con Anne. Incompreso per oppo­ste ragioni sia dai colleghi che dagli studenti, il coraggioso docente non demorde e riesce ad instaurare un rapporto di lealtà con Miller. Solo quando sua moglie sta per perdere il figlio tanto atteso, Dadier va in crisi ed è sul punto di abbandonare l’inse­gnamento. Da un ennesimo tentativo di violenza del temibile  “biondino” (sventato questa volta dagli stessi ragazzi) nascerà, tuttavia,  la “soddisfazione” del docente per la presa di coscien­za civile del resto della classe.

In questo film siamo di fronte – come scrive Giorgio Gosetti in Dizionario Universale del cinema, a cura di Fernaldo Di Giammat­teo, Editori Riuniti – a “un quadro di violenza urbana e di dis­gregazione dell’istituzione scolastica fra i più duri della storia del cinema americano. (…) Il dramma scolastico  è in fondo anche uno scontro di generazioni che, negli anni di James Dean, sembrano ancora potersi comprendere e aiutare a vicenda.  Illusione sentita dai personaggi dello stesso Dean che qui sembra presente in spiri­to. G. Ford assomiglia al pastore protestante che in qualche passo del film ambisce essere. Neppure l’ipotesi di una “love affair” con la sua avvenente collega, su cui tanto si maligna a scuola, lo scuote. Proprio per tutte queste prove di rettitudine avrà partita vinta. Ma è una risposta che sembra non convincere nemmeno il regista. Richard Brooks poi è un autore non adatto ai generi metropolitani ma ai comportamenti e alle leggi del grande west. Frutto di una moda che al cinema americano diede, tra gli anni cinquanta e sessanta, una patina di progressismo impegnato, questo film sui drammi della scuola aveva soprattutto il merito di aprire un filone e di scrutare, con attenzione quasi documentaristica, un universo esistenziale sovente dimenticato dal cinema di Hollywood.”

 

E Lino Lionello Ghirardini, (nella Storia generale del cinema, Vol. 2, Ellemme Ed.) osserva: “Il seme della violenza – in stretta parentela morale con i film di gangster, di guerra e persino western – è un terrificante documento sociale, ove non soltanto viene messo sotto accusa un determinato istituto scolastico ma anche la stessa comunità umana e civile che ne è più o meno diret­tamente responsabile. Glenn Ford, nella parte del professore Dadier, sostiene tuttavia che si può vincere la crudele asocialità di questi ragazzi e il finale del film sembra dargli ragione; ma il problema resta, in tutta la sua gravità: merito di Brooks avere avuto il coraggio di affrontarlo.”

 

Altri docenti non si accontentano di ripristinare la disciplina e di interessare in qualche modo i ragazzi alle lezioni; il loro obiettivo è, infatti, più ambizioso: si dedicano con tutte le energie a trasformare gli asini in geni. E, in questa operazione, non sempre i problemi sentimentali e familiari frenano il rendi­mento scolastico dei bambini e degli adolescenti.

Se, infatti, nei tre film di Claude Pinoteau – Il tempo delle mele (La Boum) del 1980, Il tempo delle mele 2 (La Boum 2) del 1982 e Il tempo delle mele 3  (L’Etudiante) del 1988 – la quattordicenne, sedicenne e diciottenne Vic, più si innamora dei suoi compagni di scuola e più dimentica i litigi dei genitori per dedicarsi allo studio, ne  Il mio piccolo genio (Little Man Tate) girato da Jodie Foster nel 1991, Fred Tate, un bambino prodigio di sette anni, pur   non avendo una situazione familiare felice (è senza padre e con una mamma che ha poco tempo da dedicargli) riesce ugualmente ad emergere in tutte le arti, grazie alle cure che gli riserva un’in­segnante, a suo tempo ex bambina prodigio, che si è dedicata ad allevare piccoli geni.

 

Geni si nasce, ma talvolta ci si diventa.

Nel film di Ramon Menendez, La forza della volontà (Stand and Deliver) del 1988, il professor Jaime Escalante ottiene l’incarico di insegnante di informatica al Garfield Institute di Los Angeles.  L’istituto è il più malfamato della città ed è  frequentato da ragazzi latino-americani ribelli e distratti. Nonostante la caren­za di mezzi e la debolezza del preside, egli riesce a conquistare la fiducia dei suoi alunni e a farli appassionare alla matematica; poi li convince ad affrontare un difficilissimo test riservato ai migliori studenti d’America. La classe, tra la sorpresa generale, supera la prova, nonostante le opposizioni di una commissione razzista che vorrebbe annullare i risultati.

 

Il percorso che dalla indisciplina porta alla genialità non è, tuttavia, a senso unico.

Nel film di Martha Coolidge, Scuola di geni (Real Genius) del 1985, esso viene rovesciato e i ragazzi superdotati, protagonisti della vicenda, si ribellano al volere di un loro professore quando si accorgono che questi non si fa alcuno scrupolo nello sfruttare le loro doti fuori del comune.

 

Non c’è ribellione, ma solo rassegnazione e presa di coscienza dell’infrangersi dei sogni della gioventù nel gruppo di studenti della High School of Performing  Art di New York che, in Saranno famosi (Fame), un film del 1980 di Alan Parker, sono tenuti a dare il massimo in ogni disciplina. Sarà pur vero che chi non nasce genio può anche diventarlo, ma il raggiungimento di questo obiet­tivo non può e non deve diventare un’ossessione. Le aspirazioni, insomma, devono spesso fare i conti con le possibili delusioni.

 

Genio speciale, ma pericoloso, è anche il protagonista di  Warga­mes – Giochi di guerra (WarGames), un film di John Badham del 1983. Qui, un ragazzino con il pallino dell’elettronica rischia di scatenare l’apocalisse. Dal suo computer, infatti, riesce ad entrare in quello della difesa nazionale, dando inizio alla guerra termonucleare globale. Fortunatamente per lui e per l’intera umanità, la sua genialità ha il sopravvento sulla perfezione della macchina e, proprio quando ormai tutto fa prevedere il peggio, dai moderni giochi di guerra si passa al più tradizionale e innocuo tris.

 

Alla guerra – una guerra fatta di lancio di palle di neve – gioca­no anche i ragazzini della scuola militare di Brienne in un film girato nel 1927 da Abel Gance che per diversi motivi è considerato un punto di riferimento nella storia del cinema. Tra loro c’è un piccolo genio che si fa notare dai superiori per la sua originale tattica di guerra, per la sua intelligenza, per l’applicazione nello studio e per il suo coraggio. L’alunno e il film hanno lo stesso nome: Napoleone (Napoleon vu par Abel Gance). Sarà la storia a dirci quello che il ragazzo diventerà.

 

 

 

 

 

 

 

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