I ribelli del Mussa Dagh di Fulvia Degl’Innocenti, Notes, 2021

di Cosimo Rodia

 

È un’avventura tragica, i cui giovani protagonisti anziché giocare alla guerra, la combattono realmente. E per quanto la vicenda degli interpreti abbia un lieto fine, il richiamo alla storia e al genocidio, fa pensare alla cabala che sorregge la vita di ognuno di noi. Per una serie di circostanze, cinquemila uomini armeni si salvano dai rastrellamenti turchi, spinti questi ultimi da un cieco nazionalismo; sono contadini e pastori che vivono sull’altopiano del Mussa Dagh.

Fulvia Degl’Innocenti scrive un romanzo storico, focalizzando la narrazione su Narek, un preadolescente armeno, che la famiglia manda a studiare ad Antiochia; il sogno del ragazzo di continuare gli studi è infranto quando, prima discriminato, è allontanato dalla scuola, per via della pulizia etnica in corso. Narek torna a casa ed è coinvolto nell’azione epica di sette villaggi montani, i cui abitanti lasciano le case, per rifugiarsi nei boschi e resistere.

Nella narrazione sono richiamati luoghi, date, battaglie, violenze e tra gli attori si fanno spazio i ragazzi, che diventano soggetti attivi di una resistenza che li porterà alla salvezza, grazie a navi da guerra francesi, che imbarcano gli eroi della porta accanto.

Ebbene, la resistenza, l’opposizione agli attacchi dell’Impero turco, il corpo a corpo, gli stratagemmi per chiedere aiuto, sono raccontati in terza persona, ma campeggia nella narrazione il giovane protagonista, Narek, che da studente modello, si trova a diventare soldato.

Una storia che è un grido di verità quanto di pietà, sia per le vittime che non ce l’hanno fatta, sia per coloro i quali la morte l’hanno scontata vivendo, con la diaspora e col negazionismo internazionale (Cinquecentomila armeni sono stati dispersi nel mondo, senza più patria, con l’opinione pubblica spesso ignara o colpevolmente silente, con le cicatrici rimaste a lungo nascoste).

Un libro scritto con perizia, con una narrazione puntuale, ampia, matura, regalando schegge di verità che creano coscienza nei ragazzi, stando immediatamente dalla parte di Narek e aborrendo ogni forma di sopruso, e negli adulti cui non potrà non crescere il senso di colpa per aver fatto finta di niente di fronte ad un milione e mezzo di morti: negare l’evidenza storica per i sopravvissuti è stato come morire due volte.

Alla fine il romanzo è un tributo al popolo armeno, come dice l’Autrice, ma lo è anche alla coscienza umana, spesso plasmata dalla comoda ‘realpolitik’.

 

 

 

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