EMERGENZA SCUOLA (II Parte)

di Enrico Campanelli

 

Premessa

Il contenuto di questa lettera è stato discusso e condiviso da un gruppo di docenti di diverse parti d’Italia, denominato: “La nostra scuola: cultura, passione e relazione”, promotore tra l’altro del Manifesto per la nuova Scuola, sottoscritto anche da Vito Mancuso, Dacia Maraini, Salvatore Settis, Lucio Russo, Ivano Dionigi, Donata Meneghelli, Mario Capasso, Filippomaria Pontani, Adriano Prosperi, Luciano Canfora, Carlo Ginzburg, Tomaso Montanari, Alessandro Barbero, Massimo Recalcati, Gustavo Zagrebelsky ed altri importanti intellettuali.

 

 

  1. Il tempo per la burocrazia
Analizziamo alcune tipiche attività che i docenti devono svolgere al di fuori delle aule, quindi a casa oppure nel corso delle varie riunioni con i colleghi.

 

Il curricolo disciplinare

E’ il documento in cui si riporta il programma da svolgere per una data disciplina. C’era un tempo, fino alla riforma della scuola superiore del 2010, in cui tale documento era redatto dal ministero e ad esempio, per matematica del liceo scientifico, era lungo una singola pagina e comprendeva tutte e 5 le classi del liceo.

 

Oggi i programmi ministeriali sono stati sostituiti dalle Indicazioni Nazionali, che constano di 7 pagine, sulla base delle quali ogni docente (oppure ogni istituto, se si decide di adottare curricoli comuni) redige il proprio piano di lavoro. Ebbene, ci sono casi in cui il curricolo per l’intero quinquennio arriva a contare ben 30 pagine. E non ci sembra che oggi gli studenti escano dal liceo con conoscenze matematiche 7 volte (o addirittura 30 volte) superiori, né in quantità né tantomeno in qualità. Evidentemente l’ipertrofia della programmazione è priva di qualsiasi sostanza.

I motivi di questa assurdità sono sostanzialmente due. Il primo è un accanimento burocratico che pretende di descrivere minuziosamente l’ovvio. L’altro è il risultato dell’applicazione della classificazione degli apprendimenti contenuta nell’EQF (Quadro Europeo delle Qualifiche per l’Apprendimento Permanente, approvato dal Parlamento Europeo il 23 aprile 2008). Tale documento prevede che le caratteristiche di ogni apprendimento siano descritte in termini di Conoscenze, Abilità e Competenze, in un crescendo di approfondimento ed interiorizzazione dei saperi. Innanzitutto va rilevato che tale classificazione è nata per potersi applicare indistintamente tanto alla formazione di un fabbro quanto a quella di un ricercatore universitario in filosofia teoretica (in linea con la tendenza europea a confondere sempre di più il mondo dell’istruzione con il mondo del lavoro) in un ingenuo e megalomane tentativo di generalizzazione che evidentemente ha costretto a descrivere le caratteristiche degli apprendimenti in modo talmente generico ed astratto da svuotarle di qualsivoglia significato concreto. Tornando al curricolo scolastico, facciamo un esempio pratico e consideriamo lo studio delle frazioni. Se nel vecchio programma ministeriale si scriveva semplicemente “frazioni ed operazioni su di esse” (lasciando alla professionalità del docente, alla logica ed al buon senso il compito di sostanziare questa espressione) in un moderno curricolo si troverà, invece, indicativamente (oltre ad una intera pagina che richiama il profilo generale delle competenze e gli obiettivi specifici di apprendimento) una tabella che nella colonna delle Conoscenze riporterà “definizione di frazione”, in quella delle Abilità riporterà “saper riconoscere una frazione, saper operare con le frazioni, saper confrontare due frazioni…” mentre in quella delle Competenze si leggerà  “saper servirsi delle frazioni per risolvere problemi in contesti reali”. Non si capisce bene quali siano l’innovazione e l’utilità introdotte da tale delirio tassonomico. Come se i docenti, prima di tale “rivoluzione”, fossero talmente idioti da non riconoscere, gestire e valutare adeguatamente la differenza tra un alunno che sa solo ripetere a pappagallo che cosa è una frazione, ma ne ignora totalmente il significato, le operazioni che può farci e la sua utilità pratica, da un alunno che invece sa anche ripartire equamente tre torte fra dodici amici. Questo modo di intendere il curricolo, naturalmente, comporta un appesantimento della burocrazia con relativo spreco di tempo e risorse totalmente ingiustificato rispetto ai vantaggi che introduce (cioè nessuno).

 

La certificazione delle competenze

Il DM 139/2007 ha previsto l’obbligo per le scuole di rilasciare un documento, chiamato “certificazione delle competenze”, al termine dell’obbligo scolastico di 10 anni, che per un percorso ordinario coincide con la fine del secondo anno di scuola superiore. Anche questo dispositivo è in linea con le richieste dell’Unione Europea in materia di competenze (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006) ed ha lo scopo di certificare la “capacità dello studente di utilizzare conoscenze e abilità personali e sociali in contesti reali, con riferimento alle discipline/ambiti disciplinari che caratterizzano ciascun asse culturale“, indicando il livello raggiunto (base, intermedio o avanzato) in ciascun asse culturale (*). Tale richiesta prevede da una parte che non ci sia “automatica corrispondenza” tra i voti ed i livelli, ma dall’altra impone che ci sia “coerenza” con i voti (acrobazia retorica che la dice lunga sulla concretezza della richiesta). Considerato che i voti già tengono conto delle competenze più strettamente disciplinari, si chiede in pratica di misurare qualcos’altro, di non ben individuabile nel concreto, perché attinente più alle attitudini personali ed all’indole di un individuo, e che per tale motivo non si può misurare come la larghezza di un tavolo. Questo è uno dei tanti esempi della “smania quantofrenica” che pervade la scuola moderna e che pretende di applicare all’istruzione metodi e concetti nati in ambito aziendale per valutare l’adattabilità dei dipendenti agli ambienti di lavoro o, peggio ancora, la produzione realizzata da una catena di montaggio. Si pretende di misurare cose come la “capacita di saper essere” o la “capacità di imparare ad imparare”, allo stesso modo in cui si misura la tenuta di una guarnizione di un frigorifero all’uscita dalla catena di montaggio. Naturalmente, l’intrinseca inconsistenza della richiesta e la conseguente impossibilità di un suo significativo adempimento, si traduce nell’unico modo possibile, e cioè nell’adempimento di una mera procedura burocratica che viene per lo più fatta per via automatica da un algoritmo implementato dal registro elettronico, basandosi sui voti delle varie materie. Tale automazione non impedisce, tuttavia, che il processo burocratico presenti il suo conto da pagare, con tanto di punto all’ordine del giorno del Consiglio di Classe, di tempo ed energie da spendere, di scartoffie da produrre.

 

Le attività PCTO

Sempre nell’ottica di trasformare la scuola nella succursale di un’azienda, la legge 107/2015 ha introdotto l’alternanza scuola lavoro, oggi denominata PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento). Dopo la riduzione delle ore originariamente stabilite (introdotta dalla legge di bilancio del 2019) attualmente tali attività prevedono, nell’arco del triennio finale, 210 ore negli istituti professionali, 150 ore negli istituti tecnici, 90 ore nei licei, ore che, si badi bene, vanno sottratte al normale orario scolastico. Tali attività, nella maggior parte dei casi sono totalmente inutili perché, oltre ad essere inopportune per questioni di principio (a scuola si va per studiare, non per lavorare) sono spesso improvvisate, mal progettate e mal svolte, e non per colpa dei docenti ma perché, essendo obbligatorie, si devono fare sempre e comunque (e non, magari, se si presenta una buona occasione) e quindi si deve prendere “ciò che passa il convento” in quel momento. Naturalmente, la burocrazia imperversa intorno a queste attività e quindi va designato un docente tutor che deve mantenere i contatti con l’azienda con la quale si collabora, deve redigere una UDA (Unità di Apprendimento) relativa alle attività da svolgere (con tanto di analisi degli obiettivi di apprendimento, delle competenze da sviluppare, magari raggruppate per assi culturali) poi deve redigere un cronoprogramma per distribuire le ore da svolgere all’interno del normale orario scolastico (cercando di “rubare” equamente le ore a tutti i colleghi). Ancora, vanno monitorate tutte le attività tenendo un apposito registro in cui si annotano, per ciascuno studente, le ore via via svolte; durante i consigli di classe va illustrato l’andamento delle attività ed alla fine di ogni anno scolastico va scritta una relazione sull’andamento delle attività svolte e sui rapporti intrattenuti con le aziende e così, di documento in documento, le incombenze arrivano dritte fino all’esame di Stato, in occasione del quale tutte le attività svolte vanno ri-documentate all’interno del documento del 15 maggio. Un virus burocratico che si replica a dismisura fagocitando tempo e risorse (materiali ma anche e soprattutto mentali) per partorire, alla fine, il classico topolino.

 

I progetti

La scuola moderna viene spesso definita “progettificio”, ed a ragione, vista la pletora di attività extracurricolari che vengono organizzate e che naturalmente erodono i tempi già ristrettissimi dedicati all’attività in classe (cioè alla trasmissione del sapere, questa orrenda pratica che si vuole definitivamente debellare dalla scuola). Alcuni progetti sono utili e condivisibili ma per il resto servono soprattutto alle scuole per allargare l’offerta formativa ed acquisire più “clientela”, in una assurda logica concorrenziale tra scuole che genera la riprovevole distinzione tra “scuole prestigiose” e “scuole popolari”. E servono anche agli alunni per l’acquisizione degli utili crediti scolastici (vedi paragrafo successivo) da barattare con l’impegno nello studio. Non occorre dire che il progettificio, tra docenti referenti da nominare, contatti da prendere, attività da programmare, circolari da emanare, autorizzazioni, monitoraggi, relazioni e quant’altro, è un’altra formidabile macchina avida di tempo e risorse.

 

Il sistema dei crediti

La legge 425/1997 (successivamente modificata varie volte) ha introdotto l’istituto del credito scolastico. L’idea è quella di arrivare al voto di maturità non basandosi direttamente sui voti delle varie materie (troppo semplice…) ma introducendo una nuova “moneta di scambio” per “l’acquisto” del voto finale. In sostanza: il voto finale massimo dell’esame di stato è composto da 100 crediti. Secondo la normativa ordinaria (temporaneamente modificata a causa della pandemia) 60 di questi crediti si acquisiscono in sede d’esame, gli altri 40 si acquisiscono valutando la carriera dello studente nell’ultimo triennio. Parte di questi 40 crediti, però, non sono legati ai voti che lo studente ha preso nelle varie materie, ma sono legati ad attività extracurricolari, ad esempio la partecipazione a corsi vari, attività sportive, attività di volontariato ecc. Quindi, una volta, il voto finale si “acquistava” solo con lo studio e l’impegno, nella scuola di oggi si può invece in parte barattare con un corso di tennis.  Anche tale istituto va nella direzione di svalutare sempre di più il valore della cultura e dell’impegno verso lo studio, in favore di altri aspetti della vita che, pur importanti, non dovrebbero essere messi in concorrenza con lo scopo principale e più identitario della scuola. Va da sé che anche la gestione del sistema dei crediti ha il suo costo burocratico, poiché richiede l’acquisizione da parte della scuola di tutti i vari certificati che attestano le attività svolte, poi vanno accuratamente esaminati e valutati dal consiglio di classe, poi vanno riportati uno ad uno nel registro elettronico per poter poi, in sede di scrutinio, procedere al calcolo dei crediti, naturalmente sempre con l’occhio attento alle immancabili variazioni normative (ad esempio a causa della pandemia) che impongono nuovi criteri di conteggio dei crediti. Altro tempo, altre risorse, per cosa?

 

Il documento del 15 maggio

E’ un documento introdotto dalla legge 323/1998 che va compilato per le classi quinte in vista dell’esame di Stato. Lo scopo è quello di orientare la commissione per la conduzione del colloquio d’esame, informandola sui contenuti effettivamente svolti dalla classe esaminata. Di fatto è un mattone di 50 pagine (a volte anche più di 100) che non solo contiene solo inutili ripetizioni di informazioni in gran parte anch’esse inutili, ma costringe i docenti a terminare il programma con tre settimane di anticipo proprio nell’anno in cui sarebbe ancora più importante dedicarsi ad approfondimenti in vista dell’esame. Con i tempi già strettissimi, tre settimane sono un’enormità. In luogo di tale documento, basterebbe consegnare alla commissione d’esame semplicemente il programma svolto (che è già disponibile) e qualche eventuale altra informazione, ad esempio su studenti con bisogni particolari. Invece no, si deve redigere un documento nuovo, che contiene tutta la cronistoria dell’istituto, dalla posa della prima pietra fino all’ultima riverniciatura dei corridoi, tutti i piani orari, che praticamente sono sempre quelli ministeriali, fino a ricopiare i programmi svolti, con tutte le metodologie didattiche, passando per il resoconto dettagliato di tutti i progetti svolti, le attività PCTO e di Educazione Civica. Un lavoro enorme, pressoché inutile, totalmente sproporzionato rispetto all’utilità reale.

 

(*) Gli “assi culturali” sono una classificazione delle competenze introdotta dal DM 139/2007 che recepisce nella normativa italiana (ma declinandole in maniera nostrana) le “competenze chiave per l’apprendimento permanente” introdotte dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006.

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