La moschea di Samira di Pierfranco Bruni, Milella, 2023

di Cosimo Rodia

 

La moschea di Samira di Pierfranco Bruni è un prosimetro, anche se la prosa è poesia sotto mentite spoglie; vi è, infatti, un continuum stilistico evidente tra l’una e l’altra, quale peculiarità dell’autore calabrese e tarantino di adozione. La sua forza melica risiede nel ritmo incalzante, nell’andamento vorticoso fra ossimori ubriacanti (“Non ascoltare il rumore del silenzio/in orme di vento”) e metafore originali, spesso dal sapore dannunziano: (“sul seno tuo di mandorle e colline”; “Ti ho raccontata tra pagine/di fogli e onde di luna”); e il linguaggio lirico è in uso, in egual misura, anche nella prosa.

Nel volume, scritto in prima persona, il narratore incontra, insegue e sogna Samira, ovvero un mito, uno slancio esistenziale che vive tra passato e presente, e possibile futuro.

Sin dalle prime pagine si nota un tono nostalgico che attraversa la ricerca di senso, mentre la storia si compone e scompone in cumuli di attese.

Le immagini sono segmentate, sostenute dallo stile paratattico. Il narratore immagina inizialmente essere intorno al tavolo con Samira, mentre le immagini del mondo passano davanti tra l’ineffabile, la ricerca individuale e i miti che connotano i giorni tra Oriente ed Occidente.

È un viaggio alla ricerca della verità che all’uomo comune sfugge e che, invece, forse non sfugge ai dervisci che danzano con “il cielo negli occhi e il velo del mistero”.

Per Bruni, una chiave per svelare l’arcano è l’amore con la sua portata di sensualità. Ecco, il protagonista misura il senso della vita con gli “incanti” vissuti con “la donna d’Oriente che ha negli occhi le mandorle di Albania”.

Come Ulisse, poi, il protagonista (simbolo del viandante moderno) lascia l’Albania per affrontare il viaggio in altri luoghi che avvolgono il Mediterraneo; per farlo il narratore è consapevole che bisogna dimenticare (sic!), per affrontare con leggerezza le nuove avventure e i nuovi incontri.

E nel viaggio spunta un diario in cui si cristallizza l’essenza dell’amore, ovvero un attimo in cui bruciano “frangenti/di luna nelle notti in silenzio”. Ancora: “Lo spazio degli amanti ha ore chiuse in un balbettio di giorni”.

Così il lettore viene a conoscenza di un amore passato, rispetto al quale il protagonista rimane “in silenzio per non dimenticare”.

Nel frattempo nelle apparizioni, tutte virtuali, Samira dispensa perle di saggezza; questa donna reale e mitologica rileva che tra ciò che è stato, ciò che si è dimenticato, ciò che è, c’è la possibilità di ciò che ancora deve inverarsi, starà a noi, poi, predisporci ad accoglierlo. Un richiamo esistenziale chiaro di amore per la vita, nonostante tutto.

Così Samira è il tempo perduto e ritrovato. E il senso? Risiede, ancora, tutto nell’amore con la sua portata di sensualità: “Amami tra le lenzuola di seta nelle sere d’Oriente”.

Samira è il filo che congiunge, poi, gli altri personaggi che si affastellano nel racconto: il padre, la madre, Antoni Garcia…; così, Samira è il cammino che rende evidente l’intreccio delle storie e il destino.

Il narratore cerca Samira negli altri paesi attraversati, come a voler cercare segni, riscontri, pezzi di verità. In una lettera che Samira scrive al narratore dice: “Ricordare non è però solo non dimenticare. È portare nel cuore”.

Così la vicenda si arricchisce di intrecci, tutti di ordine fantastico.

Per Bruni è fondamentale lo stile, il ritmo, quindi la tecnica narrativa. I personaggi sono strumentali a costruire una misura intellettiva entro cui configurare i simboli della realtà; essi sono un mezzo e non un fine. I personaggi non hanno centralità, non sono i catalizzatori della narrazione. Centrale è il tempo del rammemoramento, delle situazioni riscoperte e proiettate in uno spazio mitico.

Tutto si inquadra in un clima simbolico: Pilato, la donna di Magdala, Giuda (qui con ascendenze bertiane).

La parola deve echeggiare ed evocare. Bruni è un narratore lirico, lo si evince dallo stile a scatti, dalla paratassi allucinante, dal continuo travaso tra poesia e prosa. E il travaso è fatto una volta nell’una, un’altra volta nell’altra. Ma il disegno letterario è lo stesso. I fatti, le situazioni, i temi raccontati in prosa restano ancora e sempre quelli della poesia, solamente proiettati su uno schermo più ampio; e il rapporto fantastico fra le immagini si sviluppa in un contrasto, in cui il linguaggio si distende per dare consistenza alla narrazione.

Il fantastico, cui approda Bruni, ha sempre come punto di partenza un dato reale, che deriva dall’esperienza dello scrittore, nella fattispecie nei suoi molteplici viaggi (in Albania, Montenegro, Grecia, Francia…). In questa maniera il trascorso acquisisce la forza rappresentativa, per ingenerare il simbolo.

È col simbolo che Bruni tenta di addentrarsi nell’ambito primordiale della sua storia/o della Storia.

La realtà simbolica vuole andare al di là del quotidiano e rappresentare l’autenticità della vita, riscattandola da quella comune. Ecco, allora, sciorinate nel libro le metafore che cercano, che smuovono, che indagano.

Già dalle prime pagine emergono la nostalgia, la ricerca del silenzio e l’amore. E la causa dell’indagine è avvedersi del trascorrere del tempo, che comunque non inficia la possibilità di amare: È l’amore la forza simbolica capace di opporsi alla nullificazione.

C’è nello stile di Pierfranco Bruni, un atteggiamento continuo all’autoconfessione, col fine di cercare se stesso. È nella letteratura che si scrive il senso della vita. Bruni tiene in bilico la letteratura sulla vita. E la vita in bilico sulla letteratura. Pavese ha scritto: “Vivere senza scrivere non vivo”; e anche per Bruni la letteratura è vita.

 

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