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Una fine d’anno che non ti aspetti

di Gemma Acri Guido

 

Se non avete mai visto Antonio Rezza a teatro, dovete rimediare! È un’esperienza esilarante e letteralmente coinvolgente… Nel senso che potreste facilmente essere tirati in mezzo, senza pietà.

Per capire di cosa parlo e prepararvi, leggete la sua ultima opera Il fattaccio, perché, tra il palcoscenico e le pagine, non c’è molta differenza! Anche in questo suo quinto romanzo, assolutamente vietato ai benpensanti più che ai minori, Rezza gioca con ironia (al limite del sadismo) con noi lettori: semina indizi che non portano ad alcuna soluzione, ci manda indietro a rileggere o cancellare, spiazzando e distruggendo il patto narrativo. Non ha compassione per chi lo segue, per lui l’arte non deve tranquillizzare, ma aggredire come fa la realtà. “Questa notte il mare ha portato a riva il seno di una donna, reciso di netto dallo sterno”. Si presenta come l’incipit di un thriller, eh? Già immaginiamo l’ennesimo serial killer sociopatico… Ma no, non è un giallo, “il genere più ricco di cliché tra le categorie letterarie”. Può sembrarlo a tratti nella prima parte, rivestito di grottesco, ma si smarrisce definitivamente nell’assurdo del seguito. Dal poliziesco al picaresco, anzi a Rezza, che, per quanto ci si sforzi, non è catalogabile. Da sempre territori della sua ricerca, qui il corpo e il linguaggio vengono smembrati in un’ulteriore sperimentazione. Per la città, si scovano i pezzi della vittima donna (il bichiappa, avvistato tra la sesta e la decima, deve essere rincorso; l’ombelico è impossibile trovarlo;); in tutto il globo non delimitato, invece, squartati e posseduti carnalmente sono i corpi dei vecchi prossimi alla morte. Le parole si svuotano di significato e seguono il ritmo dei significanti. La trama è sedotta e abbandonata: Io lettore la trama te la scippo sotto il culo, ti tolgo la matassa e il filo del discorso che ti impicca, ti privo delle indagini sui pezzi appiccicati alle ringhiere. Io ti sfilo la questione dalle dita incaccolate. Io ti trasporto dove voglio.

Metaromanzo, quindi, con un protagonista che narra in prima persona: dapprima commissario quarantenne, che indaga su tutto ma mai dentro se stesso, che ha una grande intelligenza ma per pigrizia manca di intraprendenza, che parla poco ma quando articola fa cataclismi, che finge di indossare un cappotto che non possiede e dà buca a chi gli manca, che non si sforza per rintracciare il mitomane. Di fronte la folla indaffarata nel presunto benessere di un giorno. Tra loro potrebbe esserci il maniaco ma a guardarli bene sono tutti assassini di sé stessi. Dopo, dimissionario, cacciatore di un fratello siamese e del più grande mistero della vita (la morte). Ha una sorella che lo chiama continuamente, che non va a trovare da anni (è, per lei, sostegno ma non presenza), che è in carrozzina da quando, a 16 anni, è stata investita e poi sono rimasti orfani. In un’intervista Rezza ha dichiarato che la famiglia (disfunzionale) è l’anticamera dell’associazione a delinquere.

Ce n’è di riso, amaro, in questo libro sonoro, un prosimetro (prosa+poesia) musicale che muove il corpo di chi legge, riga dopo riga, onomatopea dopo onomatopea. Riso e commozione, ormai Pirandello ci ha insegnato che non formano una contraddizione. Il sarcasmo, perché il moralismo serve solo a darsi una riverniciata, non risparmia carriere, esercito, ordine costituito, Legge, Patria, contumacia, occhiali, pioggia. genitori, preti, passanti, donne poliziotto, autopsie, acqua gasata, vegetariani, Sole, relazioni, parentele, ospedali, psicoterapeuti, lettori stagionali (!), conduttori dei telegiornali, tassisti, chiese chiuse di notte. In quello che, legittimamente per molti, appare come un marasma, si colgono illuminanti riflessioni sulla pena di morte, l’eutanasia, l’intolleranza razziale, la vecchiaia e il trapasso. E ancora sogni, incubi, citazioni storiche religiose e letterarie: tutto questo è l’assetato di logopedia e anatomia Rezza.

Ci lascia brancolanti e barcollanti. Muore lento chi amplifica sé stesso nella forma più convenzionale. Nelle ultime delle 239 pagine, alcune bianche, si scopre chi fosse il feroce carceriere che taglieggiava la donzella e ci si esercita con complesse operazioni matematiche: Tra la poesia e le cifre c’è uno strapiombo che non ha ragione, eppure l’equazione è sempre esatta mentre la poesia fa leva sulla sensibilità di chi l’ascolta. Precisione senza sentimento da una parte e struggimento senza diligenza da quell’altra.

So di rischiare proponendo Rezza per il giorno conclusivo dell’anno, ma non torno indietro. Non posso essere giudicato blasfemo solo perché la maggioranza crede in quel che a me sollazza. Sono anch’io una creatura di Dio, mi considero un ragazzo figlio che ha perso il padre perché non l’ha mai cercato. E ride della sua sventura.

Dalla Transilvania, il mio augurio a tutti quelli che mi leggeranno è che il 2024 sia povero di convinzioni e RICCO di viaggi, letterari e per il mondo, e di desideri.

Gemma NB. A proposito di Romania, Rezza ama il filosofo Cioran e lo sente fratello quando afferma che seguire un’idea priva l’autore delle possibili derive verso l’ignoto.

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