Antonia Pozzi: La parola semplice, dura come sasso

di Barbara Gortan

 

Se qualcuna delle mie povere parole

ti piace

e tu me lo dici

sia pur solo con gli occhi

io mi spalanco

in un riso beato

ma tremo

come una mamma piccola giovane

che perfino arrossisce

se un passante le dice

che il suo bambino è bello.

(Antonia Pozzi, 1° febbraio 1933)

 

Ciò che rende immediatamente questa poesia coinvolgente, è la sua semplicità, nel senso più alto del termine: ha una dolce musicalità. Quelle di Antonia Pozzi sono poesie cristalline, non bisogna rileggerle per capire cosa stanno dicendo, sono chiare.

Montale le descrisse, dicendo “Sono asciutte e dure come sassi”, “vestite di veli bianchi strappati”, ridotte al “minimo di peso”, parole che trasferiscono peso e sostanza alle immagini, per liberare l’animo oppresso ed effondere il sentimento nelle cose trasfigurate.

 

Amore di lontananza

Ricordo che, quand’ero nella casa

della mia mamma, in mezzo alla pianura,

avevo una finestra che guardava

sui prati; in fondo, l’argine boscoso

nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,

c’era una striscia scura di colline.

Io allora non avevo visto il mare

che una sol volta, ma ne conservavo

un’aspra nostalgia da innamorata.

Verso sera fissavo l’orizzonte;

socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo

i contorni e i colori tra le ciglia:

e la striscia dei colli si spianava,

tremula, azzurra: a me pareva il mare

e mi piaceva più del mare vero.

(Milano, 24 aprile 1929)

 

La poetessa Antonia Pozzi è vissuta per un arco breve di tempo, dal 1912 al 1938. In vita non pubblicò nulla, era una ragazza discreta, gelosa delle proprie cose, visse in un ambiente in cui la donna che scriveva poesie non era considerata più di tanto. Le venne addirittura sconsigliato di continuare a scrivere. Un suo professore le disse: “Signorina scriva meno”.

La famiglia era molto rigida e conservatrice, e riteneva che la propria figlia dovesse in tutto e per tutto continuare il proprio modello di vita e accontentarsi di quelle attività di partecipazione alla vita culturale, senza essere protagonista più di tanto, per mantenere il suo ruolo di devota fanciulla, signorina perbene a cui non mancava nulla. Antonia è una poetessa nell’anima, sin da bambina ciò che per lei era importante veramente ed essenziale, era esprimere sé stessa in poesia, questa non era un’attività approvata da tutti, o per lo meno non era incoraggiata. Propose solo a qualche amico i suoi testi e nemmeno loro l’aiutarono a pubblicare.

Per alcune persone un po’ fragili, il riconoscimento del loro valore, come artisti, è fondamentale. Lei era una ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa.

Antonia ha avuto la sfortuna di rinunciare ad un amore che era sbocciato sui banchi di scuola, al secondo anno di liceo al Manzoni di Milano, con il professore Antonio Maria Cervi, che era per lei tutto, il maestro, il mentore, l’amore sognato.

 

Io non devo scordare

che il cielo

fu in me.

Tu

eri il cielo in me,

che non parlavi

mai del mio volto, ma solo

quand’io parlavo di Dio

mi toccavi la fronte

con lievi dita e dicevi:

– Sei più bella così, quando pensi

le cose buone –

Tu

eri il cielo in me,

che non mi amavi per la mia persona

ma per quel seme

di bene

che dormiva in me.

E se l’angoscia delle cose a un lungo

pianto mi costringeva,

tu con forti dita

mi asciugavi le lacrime e dicevi:

– Come potrai domani esser la mamma

del nostro bimbo, se ora piangi così? –

Tu

eri il cielo in me,

che non mi amavi

per la mia vita

ma per l’altra vita

che poteva destarsi

in me.

Tu

eri il cielo in me

il gran sole che muta

in foglie trasparenti le zolle

e chi volle colpirti

vide uscirsi di mano

uccelli

anzi che pietre

– uccelli –

e le loro piume scrivevano nel cielo

vivo il tuo nome

come nei miracoli

antichi.

Io non devo scordare

che il cielo

fu in me.

E quando per le strade – avanti

che sia sera –

m’aggiro

ancora voglio

essere una finestra che cammina,

aperta, col suo lembo

di azzurro che la colma.

Ancora voglio

che s’oda a stormo battere il mio cuore

in alto

come un nido di campane.

E che le cose oscure della terra

non abbiano potere

altro – su me,

che quello di martelli lievi

a scandire

sulla nudità cerula dell’anima

solo

il tuo nome.

 

Il padre, Roberto Pozzi era un avvocato, aveva potere e non era favorevole a un’unione del genere, così intervenne e fece allontanare il professore. Il suo amato non la liberò dalla prigionia paterna, essendo una persona molto umile, discreta, tutt’altro che disonesta e poco coraggiosa, non riuscì a mantenere il legame amoroso con la sua allieva.

Da questa infelicità d’amore nascono molte poesie.

 

Alle soglie d’autunno

in un tramonto

muto

scopri l’onda del tempo

e la tua resa

segreta

come di ramo in ramo

leggero

un cadavere di uccelli

le cui ali non reggono più

 

Divenne anche “maestra” in fotografia; non aveva tanto un desiderio di apprendere la tecnica, quanto le interessava, con ardire, che le cose, le persone, la natura avessero un loro sentimento nascosto: l’obbiettivo doveva cercare di cogliere quel sentimento, per dare loro quella eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Alcuni suoi album sono vere pagine di poesia, fotografie che erano avanti per l’epoca.

Passano gli anni e Antonia sembra rassegnarsi alla solitudine. La cosa che la caratterizza è l’estrema ubbidienza, questa sottomissione alla volontà altrui, che le costò la rinuncia alla vita, a quella che lei stessa chiama “La vita sognata”.

A soli ventisei anni, in una sera nevosa di dicembre, si tolse la vita, ingerendo barbiturici; in un biglietto di addio parlò di disperazione mortale.

Lo scultore Giannino Castiglioni le ha dedicato un Cristo di bronzo. Il comune di Milano le ha intitolato una via.

 

Questo è il mio omaggio per lei:

 

“Ogni tocco è una tenerezza fitta,

morbida acqua

viene giù dal cielo

che completamente circonda

la mia strada e la mia esistenza.

La notte è un velluto

Di quiete che avvolge la luna.

(Barbara Gortan)

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