La Svastica sul Sole di Philip K. Dick

di Alberto Dati

 

Perché rileggere oggi un classico di fantascienza scritto nel 1962? Perché quel libro ci dice ancora tanto di noi e del nostro tempo.

 

Philip K. Dick scrisse “La Svastica sul Sole” nel 1962: un anno prima Gagarin aveva orbitato attorno alla Terra a bordo del suo Vostok, e la Seconda Guerra Mondiale era finita da meno di vent’anni. Lo rileggo oggi dopo più di sessant’anni dalla sua prima comparsa, e mi travolge. Ma andiamo con ordine.

Prima di tutto l’inspiegabile e goffa traduzione, abitudine inveterata delle versioni in italiano. Il titolo originale è infatti “The Man in the High Castle”, che si sarebbe potuto rendere benissimo con “L’Uomo nel Castello”, sacrificando l’aggettivo (alto) ma mantenendo intatta l’intenzione dell’autore di porre al centro del racconto proprio quel personaggio, di cui parleremo più avanti, e non la svastica. Non è un caso che la recente serie Amazon tratta da questo romanzo conservi al contrario il titolo originale in Inglese, comprensibile persino al pubblico italiota. Tra l’altro la menzione del Sole è fuorviante, perché pur contenendo elementi fantascientifici, il libro davanti al quale ci troviamo è piuttosto di fanta-storia, tanto cara agli anglosassoni del “what… if?”.

            Per farla breve, Dick nel testo immagina che Nazisti e Giapponesi abbiano vinto la Seconda Guerra e si siano spartiti l’Europa e gli Stati Uniti, questi ultimi divisi in costa orientale e occidentale, ognuna sotto la sfera d’influenza delle due nazioni vincitrici. Negli anni successivi alla fine della guerra i Nazisti hanno portato a termine due progetti enormi, dopo aver annientato l’URSS: hanno prosciugato il Mediterraneo rendendo possibili coltivazioni intensive sull’ex fondale marino; e hanno completamente sterminato la popolazione africana mediante un programma di eliminazione messo a punto dai vertici del Partei tedesco sulla scorta di quanto appreso durante la Shoah. Albert Speer ha ricostruito gli Stati Uniti dopo la distruzione delle atomiche naziste, e i Giapponesi minacciano ora di invadere la zona d’influenza tedesca, rischiando lo scoppio della Terza Guerra Mondiale. All’inizio della trama, Hitler è già in fin di vita e malato di mente, sostituito da Martin Bormann. Ma questi è moribondo, e sta per aprirsi la lotta feroce degli aspiranti al ruolo di nuovo Fuhrer, tra i quali spicca il dottor Goebbels, ancora in vita. Anche l’Italia – non più bagnata dal mare – fa capolino in questa vicenda: ha vinto la guerra assieme alla Germania ma Mussolini è sempre stato “un pagliaccio” e il Bel Paese rimane un fanalino di coda anche tra le potenze vincitrici. In tutto ciò, lo Spazio appare poco, e quasi per caso: apprendiamo che i Nazisti mandano astronavi su Marte e Venere da poco colonizzati (ma non sul Sole), e che i voli transatlantici si effettuano a bordo dei razzi di Von Braun che in un paio d’ore permettono di viaggiare da New York a Berlino.

Sullo sfondo di una Storia allucinata e distopica si svolgono le vicende dei personaggi principali, che in questo luogo non ci interessano in modo particolare. Ci interessa invece che tutta la trama si svolga attorno a due Libri, a due codici, uno antichissimo e uno molto moderno. Ed è proprio in un libro che si trova la chiave di lettura dell’intero romanzo. Tutti o quasi i personaggi agiscono infatti in base all’I-Ching, il Libro dei Mutamenti che da millenni aiuta gli orientali a prendere decisioni. E quasi tutti i personaggi leggono, hanno letto o vorrebbero leggere La Cavalletta non si Rialzerà (in inglese The Grasshopper Lies Heavy, un altro caso di difficile resa in Italiano), un romanzo clandestino che circola nei territori occupati nonostante il fermo divieto delle autorità tedesche. Vi si immagina che la guerra non sia stata vinta da Nazisti e Giapponesi ma dalle forze alleate: il libro cioè rappresenta la nostra realtà quotidiana, la nostra Verità di lettori ignari. Di colpo ci troviamo di fronte allo specchio, al doppio sogno, al Sosia di Dostoevskij che appare solo per rendersi più imprendibile. Noi stiamo leggendo la storia dei protagonisti, nella quale i Nazisti hanno vinto; e nel frattempo i protagonisti del racconto leggono la nostra Storia, in un libro nel quale Americani e Russi hanno vinto, che è la loro illusione e contemporaneamente la nostra realtà. Il tratto d’unione tra realtà e finzione, o tra le realtà e le finzioni, è appunto un libro, un codice: è come se due universi possibili e paralleli fossero messi in contatto dall’esistenza de La Cavalletta. Il lettore già a questo punto è disperso, e comincia a insinuarsi in lui il dubbio che la realtà non sia quella cui è abituato, ma quella contenuta nel libro di Dick. Stiamo lentamente sprofondando nelle sabbie mobili saggiamente preparate dall’Autore.

Un altro personaggio porta a mio parere l’ulteriore senso dell’intero esperimento dickiano. Si tratta di Wyndham-Matson, carattere minore che però in un dialogo con la sua compagna Rita affronta il tema che è il fondamento del racconto. L’argomento è la falsificazione di manufatti storici americani, per i quali nel romanzo i giapponesi nutrono una vera mania collezionistica. I giapponesi hanno scoperto alcuni falsi, e Matson mostra a Rita due accendini Zippo, uno appartenuto a Franklin Roosevelt e l’altro contemporaneo. I due oggetti non mostrano alcun segno che li distingua, sono identici così come sono identiche le pistole autentiche e quelle falsificate che vengono vendute ai giapponesi. Nelle parole del personaggio:

“Voglio dire, una pistola venne impiegata in una famosa battaglia, come quella della Mosa-Argonne, ma se non fosse stata usata sarebbe esattamente la stessa. A meno che tu non lo sappia. E’ nella mente, non nella pistola”.

Più oltre, Rita ribatte che secondo lei gli accendini – così come le pistole – sono indistinguibili, e che servirebbe un documento a dimostrare l’autenticità di uno dei due. E Matson ribatte:

“E’ proprio questo il punto! Dovrei dimostrartelo con qualche documento. Una dichiarazione di autenticità. Perciò è tutto falso, è un’illusione di massa. E’ il documento che prova l’autenticità dell’oggetto, non l’oggetto stesso”.

Non c’è bisogno di tirare in ballo la tradizione del rapporto tra significante e significato, tra parola e oggetto designato, dall’Iperuranio di Platone allo Sprachspiel di Wittgenstein. In questo scambio di battute tra Matson e Rita è contenuto il senso dell’intero romanzo, del doppelgänger di Philip Dick. I due accendini, le due realtà storiche, lo Yin e lo Yang, i due libri che si rispecchiano capovolti e il tratto convenzionale di ogni Verità, che lungi dall’essere rivelata è sempre la sintesi della società che la produce. E’ illusoria l’invenzione poetica di Dick così come, suggerisce l’Autore, potrebbe essere illusoria la Realtà in cui il lettore crede di essere immerso, la solida roccia sulla quale bilancia la sua vita. Quantomeno, questa fragilissima realtà non si determina da sola ed è prona ad incrinarsi, avendo bisogno di una validazione esterna, di un documento o della conoscenza per consolidarsi, pur rimanendo evanescente. A meno che tu non lo sappia, appunto.

Per essere un romanzo di fantascienza attualmente in vendita negli ipermercati, mi pare già abbastanza. Ma a complicare ulteriormente, e definitivamente, le cose giunge l’incontro finale dell’eroina, Juliana, con l’autore della Cavalletta, Hawthorne Abedsen, l’Uomo nel Castello, appunto, del quale parlavamo all’inizio. La ragazza sospetta che l’I-Ching e il libro clandestino siano in qualche modo correlati, e nel colloquio finale con Abedsen, insieme i due scopriranno che tutto ciò che è scritto nel romanzo clandestino è la Verità! Siamo arrivati alla confusione finale dei segni, al culmine del sottile gioco di specchi nel quale Dick ha immerso il lettore sin dalle prime pagine. I Nazisti hanno vinto la guerra o no? In che mondo mi trovo? Ci si può fidare dell‘I-Ching ? In che rapporto è il lettore con ciò che ha appena letto e con i personaggi del racconto? Per andare fino in fondo al feedback cognitivo nel quale siamo immersi fino al collo, Dick è diventato magicamente l’Abedsen della nostra realtà: una magia inquietante, un sortilegio più che un incantesimo. E’ come essere al centro di due specchi che riflettono all’infinito la nostra immagine. La vicenda è tutta interna alla Letteratura e al rapporto dei libri tra loro: dimensione onirica e ipertestuale di rimandi interni ed esterni, che riescono a determinare e creare la realtà. Ma l’Autore ci lascia con un dubbio glaciale che mette in discussione noi lettori e ciò che ci circonda, lasciandoci attoniti di fronte al velo sottile che separa la Realtà dall’Illusione, la Verità dalla Propaganda, lo spazio liscio da quello striato, come direbbe Gilles Deleuze, che proprio sul Codice e sulla sua rottura ha scritto pagine bellissime e giustamente celebri.

Ecco affiorare un altro motivo per rileggere questo capolavoro del secolo scorso proprio oggi: nel momento cioè in cui la propaganda di guerra mette in discussione la Verità, scopriamo che esistono altre Verità confliggenti e irriducibili, e ci vediamo riflessi nello specchio del nemico, parola che è un caposaldo della propaganda bellica e della creazione del consenso, anche nelle democrazie occidentali. Esperienza orribile, quella di vedersi con gli occhi dell’altro, essere visti: “l’enfer c’est les autres”, per dirla con Sartre. Di colpo ci siamo resi conto che qualcuno ci guardava mentre spiavamo qualcun altro dal buco della serratura. Che è un modo più poetico e francese di simboleggiare l’essere-per-gli-altri di Heidegger. La confusione dei segni e dei significati operato dalla propaganda è sempre il preludio della guerra, che è lo stato permanente in cui vivono i personaggi de La Svastica sul Sole.

Non credo che Philip Dick volesse suggerire teorie complottiste sulla fine del secondo conflitto mondiale o su verità alternative, ma piuttosto questionare il senso della Verità e il modo in cui una società decide di concordare su di essa, e in qualche modo di definirne i contorni; sui limiti della convenzione e sulla sua definizione, e infine sul concetto stesso di Verità, che se auto-riferita porta a una contraddizione irrisolvibile.

Ciononostante, la suggestione che soffia nelle pagine di questo “romanzo di fantascienza” continua per me ad essere gelida, e mi lascia stupefatto: chiuso il libro, rimango al centro del gioco di specchi, e non riesco più a uscirne. Provo solo ad aggrapparmi ad una frase per orientarmi, l’unica che riesca ancora a confortarmi: a meno che tu non lo sappia!

 

(Philip K. Dick)

 

PER APPROFONDIRE:

  1. Philip K. DickLa Svastica sul Sole, Fanucci 2022
  2. G. Deleuze e F. Guattari – Millepiani, Feltrinelli 1980
  3. J.P. Sartre – L’Essere e il Nulla, il Saggiatore 1988
  4. F. DostoevskijIl Sosia, Garzanti 1975
  5. L. Wittgenstein – Osservazioni sui Colori, Einaudi 1981

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