La filosofia dell’arte di Giovanni Gentile

di Sandro Marano

 

La filosofia dell’arte (1913) di Giovanni Gentile è senza dubbio una delle sue opere filosofiche più vive. Diciamo subito che il saggio, frutto di più di vent’anni di studi e di meditazioni sul problema dell’arte, non è di facile lettura. Non è un caso se lo stesso Gentile confessa nella Conclusione che il suo libro «non vuol essere un’esposizione popolare di pochi concetti ricavati da un presupposto sistema filosofico, ma una ricerca filosofica» (p.304). L’esposizione infatti è a volte prolissa e ripetitiva, il linguaggio per lo più tecnico con qualche caduta retorica. Ma se la sua scrittura non ha l’agilità e l’eleganza di quella di Benedetto Croce, il testo possiede egualmente pagine di grande forza e bellezza, e soprattutto intuizioni feconde. Facendo un confronto tra i due stili, di Croce e di Gentile, potremmo paragonare il primo a un boulevard piacevole e confortevole, che rassicura chi lo percorre, il secondo a un dedalo di vicoli, di strade strette e tortuose che menano all’improvviso in piazze ariose ed incantevoli suscitando durevoli emozioni.

 

Una critica serrata all’estetica di Croce

 La filosofia dell’arte si presenta in primo luogo come una critica serrata, puntuale, travolgente dell’estetica di Croce e del suo modo di intendere l’attività dello Spirito, che Gentile definisce in modo sprezzante «la filosofia delle quattro parole» (p. 319). Il punto di vista di Croce è per Gentile empirico, in quanto presuppone l’oggetto al pensiero. E contro di esso fa valere il punto di vista più strettamente filosofico, che esclude che la filosofia abbia tante caselle distinte e separate, in quanto muove dal principio dell’unità dell’atto spirituale, al cui interno soltanto è possibile distinguere varie forme: «Quando si parla della vita dello spirito, vi si distingue arte, religione, diritto, moralità, scienza, filosofia; e qualunque sia il concetto che si abbia di ciascuna di queste attività, tutti facilmente convengono che tra la filosofia e tutte le altre forme c’è una differenza la quale si può formulare dicendo che […] essa giudica tutte queste altre; e nessuna di queste altre giudica lei. E non importa che qualche giurista o artista o moralista, ecc. rifletta alla sua volta sulla filosofia, e dica la sua: perché in tali casi non è l’arte dell’artista che entra in funzione, ma la sua filosofia; e così la filosofia del giurista o del moralista ecc. Poiché sempre giudicare la filosofia è filosofare» (pp.56-57).

 

Tutto è filosofia

Bisogna tener presente che «la filosofia non è dunque né l’inquilino dell’ultimo piano, né la compagna consolatrice della vecchiaia. Il che vuol dire che nasce con l’uomo e vive con lui […]; purché si sottintenda che c’è la filosofia del filosofo e c’è la filosofia dell’uomo comune; c’è quella dell’adulto e c’è pur quella del fanciullino» (p.45).

Per Gentile la filosofia abbraccia tutto. Pensa il contadino che dissoda le dure zolle e pensa il filosofo che scruta le sorgenti della vita universale: «ora è un problema che riguarda quello zampillo d’acqua, che può spegnere l’ardore della mia sete; ora è il problema che riguarda quello che credo sia da chiamare propriamente il Cosmo o il Tutto» (p. 68).

 

Cos’è l’arte?

C’è allora l’arte? E se c’è, in cosa consiste?

Per Gentile il pensiero in atto è sempre sintesi, relazione di soggetto ed oggetto e in ciò consiste la sua concretezza. Solo all’interno dell’atto del pensare possono distinguersi i due momenti dell’astratta soggettività e dell’astratta oggettività. E l’arte intesa come sentimento, come forza del sentire, coincide con la soggettività. Questo spiega la difficoltà di cogliere l’arte nella sua esistenza, ma anche come essa sia il momento inscindibile di ogni realtà: «l’arte, nella sua esistenza immediata, non si può conoscere, e sfugge a ogni sforzo che il pensiero faccia per raggiungerla. Essa, come il sogno, non è nel pensiero che l’afferma e può affermarla, nella riflessione che vi si esercita su, nella critica che mira ad apprenderla e rendersene conto, nella storia che si sforza di individuarla, nella filosofia che la definisce. In queste o simili forme del pensiero l’arte non c’è più, come non sogna più chi vi sta raccontando il suo sogno. E allora? Quando c’è, non è arte; e quando si potrebbe dire: – Eccola lì, l’arte! – essa non c’è più» (p.104).

Potremmo, in altri termini, paragonare l’arte allo zucchero disciolto nella bibita: sappiamo che c’è, ma non è più zucchero. Il sentimento «è bensì sempre superato e come disciolto nel pensiero […]. Ma se al pensiero venisse una volta a mancare il sentimento che esso oggettiva, il pensiero verrebbe a lavorare nel vuoto, e cioè a cadere nel nulla» (p. 154). Ne consegue che «ogni uomo è uomo, cioè pensiero; ma è prima di tutto artista, che è come dire che ha un’anima, e lo dimostra pensando» (p. 187).

 

C’è artista ed artista, ma ogni uomo è artista

Ma se l’arte è lo stesso sentimento e in tutto va ritrovata, vengono a cadere tutte le distinzioni sulle quali tanto si era affaticato Croce. E in primo luogo quella tra poesia e non poesia. «Una commedia in prosa cessa di essere un’opera d’arte solo perché non è stata versificata? E un romanzo, a quale categoria appartiene? E i Dialoghi di Leopardi? E quelli di Platone, almeno quelli più ammirati per leggiadria di rappresentazione e splendore di forma? E poi, un poeta come Dante è soltanto un poeta, o non è altresì un pensatore o filosofo? E non si potrà scrivere della filosofia del Leopardi o del Petrarca, quantunque nella storia letteraria  essi figurino poeti? E non c’è evidentemente una finalità pratica, religiosa e politica nella Commedia?» (p. 186). Ora, «se per distinguere l’arte dal resto, si vuole un pezzo di realtà che sia tutta arte e nient’altro che arte, e un altro pezzo in cui ci sia più arte, non abbiamo nessuna difficoltà a dichiarare che una tale distinzione, secondo noi, è impossibile […]. Differenze, s’intende bene, ce ne sono, o ce ne debbono essere; ma tra artista e artista, non tra artista e non artista […]. Poiché l’arte è tutta nella forma del sentimento, in cui vive quella qualsiasi materia che si svolge nel pensiero» (pp. 189-190).

 

Il sentimento come porta dello Spirito

Nel suo saggio Gentile procede anche ad esaminare e trattare in modo brillante e a volte ingegnoso una serie di problemi particolari relativi al linguaggio, ai generi letterari, alla traduzione delle opere d’arte, al rapporto tra arte e religione, alla critica d’arte, e così via. Ciò che rileva nella sua trattazione è comunque la centralità del sentimento, che come dice icasticamente è “la porta dello spirito”. Il sentimento  vive nella vita di ciascun uomo e nelle costruzioni etiche, politiche e religiose: «Si vis me flere, dolendum est primum ipsi tibi, si può dire al poeta, appunto perché se egli piange, ed è veramente e sinceramente commosso, il suo pianto non è più di un uomo particolare, che sta di fronte a me. È di lui e di me, perché di tutti: non di un singolo uomo, ma dell’uomo. L’umanità dell’artista, la sua universalità, e quindi la sua immortalità sgorga dalla fonte, da cui deriva la sua arte: dal sentimento» (p.178).

 

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