Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche di Karl Löwith, Donzelli editore

di Sandro Marano

 

Giovanni Sessa, recensendo su Barbadillo “Il silenzio del cosmo: l’ecologia secondo il G.R.E.C.E. Italia”, suggeriva di tornare a leggere approfonditamente quegli autori che hanno posto al centro delle loro riflessioni la physis [= la natura vivente], tra i quali un posto di primo piano spetta senz’altro a Karl Löwith (1897-1973), pensatore tedesco di origini ebraiche allievo di Martin Heidegger. Suggerimento che ho prontamente accolto, leggendo e rileggendo (come si deve fare per i libri importanti) uno dei suoi ultimi saggi Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (Donzelli editore, 1999) pubblicato qualche anno prima della sua morte nel 1967.

Confesso, di sfuggita, che di Löwith avevo letto con profitto molti anni fa Da Hegel a Nietzsche (1941), un saggio in cui, tra l’altro, sosteneva in modo convincente la centralità della dimensione cosmologica, e dunque dell’eterno ritorno, nella filosofia di Nietzsche. «La morte di Dio – scriveva Löwith – apre, attraverso il nichilismo, la via alla riscoperta del mondo». Il che mi aveva agevolato il percorso verso una possibile interpretazione ecologista di Nietzsche, che proposi in un piccolo saggio, Lo stupore del mattino. Nietzsche ecologista (Schena, 1997), il cui suggestivo titolo mi fu suggerito dallo scrittore barese Giorgio Saponaro.

 

Il naturalismo cosmologico di Löwith

L’importanza di quest’opera di Löwith è dovuta, come nota nella sua pregevole introduzione il curatore e traduttore Orlando Franceschelli, non solo al fatto che conclude la ricerca filosofica del pensatore tedesco che approda, sui passi di Nietzsche e di Spinoza, ad una sorta di  naturalismo cosmologico, ma anche al fatto che «sotto l’incalzare della crisi ecologica e delle sfide bioetiche» la riscoperta filosofica della naturalità del mondo può contribuire «al recupero di un accordo ragionevole di uomo e mondo». La filosofia di Löwith, infatti, mettendo in discussione «non solo l’antropocentrismo della tradizione cristiana, ma anche le forme secolarizzate in cui è variamente sopravvissuto», le «metafisiche della soggettività», può, a nostro avviso, iscriversi senz’altro tra le filosofie dell’ecologia.

Il bersaglio polemico di Karl Löwith è rivolto soprattutto al soggettivismo moderno e in particolare alle filosofie che vogliono comprendere il mondo a partire da se stessi e non se stessi a partire dal mondo, che si sono succedute da Cartesio fino ad Heidegger e Sartre – con l’eccezione appunto di Spinoza e Nietzsche e, in minor misura, di Feuerbach. Scrive Löwith: «il percorso della storia della filosofia porta dalla cosmo-teologia greca all’emancipazione dell’uomo, passando per l’antropo-teologia cristiana. La filosofia diventa antropologia nella stessa misura in cui l’uomo si emancipa dal cosmo divino dei Greci e dal Dio sovrannaturale della Bibbia e, infine, assume su di sé la creazione del mondo umano. Al termine di una simile liberazione da tutto ciò che potrebbe costituire un vincolo, si colloca il tentativo di Nietzsche, unico nel suo genere, di rivendicare di nuovo il mondo precristiano mediante la dottrina del superuomo, che sorge contemporaneamente al tramonto di Dio e insegna l’eterno ritorno di un mondo che vuole se stesso, cui Nietzsche, definendolo dionisiaco, riconosce un carattere divino».

 

Il vicolo chiuso dell’antropocentrismo

Nel suo testo Löwith fa una disamina dei principali filosofi a partire da Cartesio, avendo come bussola le nozioni metafisiche di Dio uomo e mondo, o meglio la relazione che intercorre tra Dio uomo e mondo. La sua tesi è che l’originaria “trinità metafisica”, in seguito alla “caduta di Dio”, cioè al venir meno della fede nel Dio biblico, si è via via ridotta al semplice rapporto uomo mondo, fino a fare dell’uomo centro e misura di tutte le cose e finendo così per negare lo stesso mondo.

Alla filosofia cristiana si deve la scoperta dell’interiorità: “Noli foras ire, redi in te ipsum” (Non andare fuori di te, torna in te stesso), diceva Agostino. Ma alla scoperta dell’interiorità corrisponde anche la sfiducia verso il mondo: «La tendenza tardo-antica del distacco del mondo incontra la rinuncia al mondo da parte del cristianesimo. L’Antico e il Nuovo testamento non hanno occhi per il cosmo. […] L’intera teologia da Paolo e Agostino fino a Lutero e Pascal è concorde nel ritenere che non il mondo in quanto tale è degno di amore, ma esclusivamente Dio, che è egli stesso amore, e il prossimo che in lui deve essere amato».

Benché il te ispsum venga interpretato in modo diverso dalle filosofie moderne (dall’io penso di Cartesio all’Io trascendentale di Kant, dall’esserci di Heidegger alla nausea di Sartre), la conseguenza comune di questa visione è duplice: da un lato «il mondo non è più la realtà prima ed ultima, incondizionatamente autonoma e che tutto abbraccia»; dall’altro «l’uomo si ritrova senza posto e spaesato  nel tutto del mondo, diventa esistenza contingente e alla fine assurda, gettata bel mondo non si sa come e da dove», aprendo così la strada al trionfo del nichilismo.

Löwith cerca di trovare una via d’uscita al nichilismo, oltre il Dio della tradizione biblica, che oggi, a suo avviso, non è più credibile, e si ricollega ad una linea filosofica che va da Spinoza a Nietzsche. Questa linea di pensiero prelude ad un nuovo paradigma incentrato non sul dominio sulla natura, ma sulla vita all’interno della natura.

 

La filosofia di Niezsche come punto di svolta

Nietzsche rappresenta indubbiamente il punto di svolta: «Il tentativo di Nietzsche di “ri-fidanzamento” col mondo rappresenta, al culmine della modernità, una ripresa della certezza antica del mondo». Dunque, di un mondo che eternamente genera e distrugge se stesso. Tuttavia nel filosofo dell’eterno ritorno continua ad agire quella metafisica della volontà di derivazione cristiana, che si manifesta nel sovrapporsi di una dimensione antropologica (la volontà di potenza) ad una dimensione cosmologica (l’eterno ritorno).

 

L’approdo alla filosofia di Spinoza

Löwith prova ad andare oltre la categoria della volontà e qui incontra Spinoza che con la sua natura naturans è il pensatore che più si emancipa dall’antropocentrismo e pare spingersi perfino oltre lo stesso Nietzsche. E non è un caso se egli conclude la sua ricostruzione storico-filosofica con un capitolo su Spinoza: infatti, «la storia della filosofia non costituisce alcun progresso ininterrotto nella coscienza della libertà, se la cosa che conta è la vera conoscenza dell’unica e sempre uguale natura di tutto ciò che esiste. Il pensiero che maggiormente si è spinto avanti nella ricerca della verità può essere uno che storicamente si colloca nel passato, ma che proprio per ciò può avere ancora un futuro». Sia detto per inciso, Spinoza è il pensatore cui si rifà anche il filosofo norvegese Arne Naess, padre dell’ecologia profonda, elaborando la sua ecosofia.

 

Un interrogativo aperto

Löwith, separando nettamente la teologia, che è fiducia nella rivelazione di Dio, dalla filosofia intesa come ricerca della verità e “riconoscimento e accettazione dell’incertezza” (Orlando Franceschelli) – al cui interno si colloca saldamente – osserva che ci sentiamo oltre lo stesso Deus sive Natura di Spinoza, dal momento che «ormai riusciamo appena ad immaginare le ragioni per cui la metafisica è stata, così a lungo e così ostinatamente, teologia metafisica e ha ritenuto di dover pensare in ogni caso Dio e non solamente la totalità del mondo, il cui essere senza Dio per noi è evidente».

All’interrogativo del giovane Nietzsche quale sia l’anello che tutto abbraccia: “È Dio? È il mondo?» – che poi nello Zarathustra sarà sciolto nella esortazione “restate fedeli alla terra!” – anche Löwith risponde schierandosi per il mondo naturale contro il Dio-spirito. Possiamo dunque considerare Löwith “vincitore di Dio e del Nulla”, come diceva di sé, nella Genealogia della morale, Nietzsche?

Certamente, «una simile ammissione che un mondo divenuto senza Dio costituisca oggi l’evidenza cui la nostra coscienza si sente più vicina, deve saper conservare sempre, come proprio Löwith ci ha insegnato, la scettica criticità della ricerca» (Orlando Franceschelli).

Resta tuttavia aperto, a nostro sommesso avviso, un interrogativo di fondo: quello sull’enigmicità dell’uomo, per metà natura e per metà cultura; dell’uomo, che, sebbene pienamente inserito nella naturalità del mondo, ha la possibilità di modificare, alterare e violare l’ordine naturale delle cose.

 

(pubblicato su Barbadillo 16 gennaio ’22 col titolo “Rileggere Karl Löwith sul crinale tra sacro e natura (oltre l’antropocentrismo)”)
 

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