Zeman per sempre di Gianni Spinelli, Sedit 4.zero, Bari 2021

di Trifone Gargano

 

È un autentico conte philosophique, questo libro di Gianni Spinelli, con riflessioni a tutto campo, che, quindi, ha preso come mero pretesto narrativo il calcio e l’avventura italiana di Zdenek Zeman:

 

«…rock o pop, il più vincente degli allenatori perdenti, il profeta del 4-3-3 con le stimmate del santo mandato in terra per trasmettere il verbo del calcio» [p. 116]

 

Spinelli, infatti, da grande affabulatore, e con uno stile ironico, cattura il lettore e lo tiene incollato alla pagina fino all’ultimo rigo, sfatando, innanzitutto, un doppio pregiudizio, quello secondo il quale uno sportivo non ha alcuna consuetudine con libri, romanzi e filosofi; e l’altro, secondo il quale un intellettuale, un vero intellettuale, non debba occuparsi di sport. Pregiudizio contro il quale già aveva tuonato, da par suo, Pier Paolo Pasolini, nel 1975, in una delle sue ultime interviste, concessa al «Guerin sportivo», che suonò, come al solito, al tempo stesso, come provocazione, ma anche come stimolo a cambiare. E Pasolini, in questo libro di Gianni Spinelli ha tanto posto, proprio in rapporto alle idee sul calcio, ch’egli vedeva come linguaggio, con un preciso sistema di segni (fonemi e podemi), e quelle sul «capocannoniere di un campionato», «miglior poeta dell’anno» [p. 55]. Insomma, scrive Spinelli, Zeman

 

«…è come Pasolini, come Saba […]. Non è come Montale […]. Zeman è come il Brasile, come l’Olanda, come Pelè, come Maradona, come Messi. È come libertà e gioia» [p. 57]

 

Se provassi a fornire un elenco (approssimativo) dei romanzieri, dei poeti, dei filosofi, degli artisti, degli uomini di spettacolo, degli eventi culturali e sociali con i quali Spinelli mette in rapporto Zeman, in questo suo gustoso libro, rischierei di provocare, nel lettore, uno stordimento:

 

«Kundera, Kafka, Leopardi, Zenone, Campanella, Valdano, Buzzati, Galeano, Hornby, Einstein, Socrate, Platone, Leonardo, Locke, Roiusseau, Kant, Picasso, Pasolini, Bene, Brera, Celentano, Soriano, Sciascia, Albanese, De Amicis, Jung…» [p. 93]

 

E aggiungerei: Cancogni, il rock e il pop, Casillo, la primavera di Praga, il rogo di Jan Palach e i suoi funerali, la Sicilia, Peppino Impastato, Tano Badalamenti, il Sud d’Italia, Leopardi e il suo Infinito, Foggia e Zemanlandia, Oronzo Pugliese, Baiano, Signori, Insigne, la Destra e la Sinistra, la Lazione la Roma, Torino, Pescara, Italo Calvino, la leggerezza, De André, il dogma e la fede, il calcio ludico, il 4-3-3, Boskov, Sacchi, Berlusconi, Picasso, Heidegger, Rivera, Mazzola, Riva, Morandi, Eastewood, Dachau, lo sterminio, Boniperti, Bufalino, Tomasi di Lampedusa, Palermo, Messina, Licata, Napoli, Salerno, Lecce, Del Piero, i farmaci e l’antidoping, Lotito il latinista, Flaiano e gli aforismi (che oggi chiameremmo tweet), Moravia, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Caravaggio, Verdi, Puccini, l’ignavia…

 

Il calcio milionario di oggi, ma privo di valori. Con Zeman, che, invece, a dispetto di tutto e di tutti, si muove in direzione ostinata e contraria, immortalato, come ricorda Spinelli, nella pagina di congedo del libro, in una foto dell’agosto 2021, a raccogliere bottigliette di plastica abbandonate sul campo dai giocatori:

 

«Lo Zeman immortalato è il logo di un calcio povero, puro e poetico» [p. 125]

 

Dunque, Gianni Spinelli, con Zeman per sempre, sta scrivendo di noi tutti; delle nostre miserie, ma anche delle nostre speranze, delle nostre paure, dei nostri sogni. Ecco perché questo libro di Spinelli è un grande romanzo sul post-moderno, nel quale non mancano spunti e pagine oniriche. Il linguaggio del libro è maturo, di un autore, cioè, che già in altri suoi lavori precedenti (alludo a La scatola di cuoio, Fazi 2019) ha dato prova di grandissima maestria linguistica e narrativa. Segnalo, in questo Zeman per sempre, le pp. 20-21, per un esempio, tra i tanti che potrei citare, di rutilante anafora, costruita con il martellante «Non seppe mai niente…», ripetuto ben quattro volte, per concludere l’anafora con un’affermazione in perfetto stile sentenzioso: «A Zeman importava del Pallone». Da grande giornalista (compreso il giornalismo sportivo, coltivato e praticato per decenni da Spinelli ad alti livelli), in queste pagine, Spinelli predilige lo stile nominale, in modo da conferire al ritmo narrativo accelerazioni e rallentamenti repentini, che solo un abile giocoliere della parola può (e sa) gestire. Eccone un esempio:

 

«Altro che Unità d’Italia. La Sicilia e la Sicilia. Il Piemonte è il Piemonte. L’Isola è l’Isola. Il Continente è il Continente. Così è. nemici eravamo, nemici siamo, nemici resteremo. Acerrimi.» [p. 28]

 

Posto a sé occupa, nel libro, e in tutta la vicenda, così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, dell’uomo e dell’allenatore Zdenek Zeman, la città di Foggia, «capitale mondiale del calcio vero»; «parco divertimenti alla Walt Disney…». Micro-cosmo elettivo dell’anima del «muto di Praga». Non a caso, il capitolo nel quale Spinelli racconta del primo arrivo di Zeman a Foggia, allorquando cioè don Pasquale Casillo lo ingaggiò, è intitolato «La Città del Sole» [p. 29].

Sull’oggi, sul presente di questa città martoriata, Spinelli, nelle pagine conclusive (e dolenti) del suo libro, affida il giudizio alle parole «crude e severe» del collega Davide Grittani, che ben conosce Foggia e le sue contraddizioni, citando da un articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno:

 

«Il bene rifugio di una città come Foggia, che ha sempre respinto il futuro e sembra possedere una naturale vocazione alla nostalgia, è il calcio. Anzi il pallone.»

 

Per affermare, amaramente, poco dopo, che l’ignavia è la cifra

 

«di una città che ha scelto il ricordo come forma di sopravvivenza» [p. 115]

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