Lucia Diomede sulla poesia

 

Vorrei parlare di alcune delle utilissime inutilità della poesia, non come auto-marginalizzazione spocchiosa di un membro di una casta di elezione, ma proprio come esponente nemmeno tanto rilevante dell’insieme degli esseri umani. “O, reason not the need!”[1], “Non discutere di cosa si ha bisogno”[2], risponde Re Lear alle sue perfide figlie, Goneril e Regan, quando gli tolgono le ultime vestigia della sua regalità. Prosegue: “Allow not nature more than nature needs, / Man’s life is cheap as beast’s.”[3], “Non concedere alla natura più di ciò di cui essa stessa ha bisogno / e la vita umana vale tanto poco quanto quella della bestia”[4]. Non che mi dispiaccia essere paragonata alle bestie, viviamo tempi in cui può essere un complimento, ma vorrei prendermi la responsabilità di fare alcune considerazioni da essere pienamente umano (si spera).

Poesia come esperienza corporea. Resto sempre in ambiente shakespeariano.

È per me indimenticabile l’esperienza del ritmo del verso giambico shakespeariano come battito cardiaco, presso l’Università di Cambridge nelle settimane estive del 2019 dedicate a Shakespeare, coordinate dal Prof. Frank Parker, presso la Facoltà di Inglese, in un seminario tenuto da Kelly Hunter, attrice della Royal Shakespeare Company, con la metodologia esperienziale ideata per bambini autistici. Poesia come esperienza dell’intero corpo. Poesia come ritmo che coinvolge. Il ritmo è al cuore dell’esperienza poetica, il ritmo è il cuore dell’esperienza poetica, anche nella sua ricusa e rifondazione, come ci ha insegnato il Novecento. Pirandello notava che: “Ai movimenti dell’animo rispondono certi movimenti del corpo: il suono della voce si altera, la respirazione diventa affannosa e le parole ora s’arrestano d’un tratto; ora precipitano. E di qui la misura del verso che ritma il sentimento e le modulazioni che rompono la continuità monotona del linguaggio comune”[5]. La poesia nella sua composizione o nella sua fruizione è anche riflessione, esternazione, pensata profusione di sentimenti, ma è, dovrebbe essere, si dovrebbe fare esperienza, passare dagli occhi, dalle orecchie al cuore, al corpo, emozionarlo, muoverlo, “ispirarlo” (in una novella formulazione delle teorie di Jacopo da Lentini sull’amore), farsi tramite di ricostruzione di socialità, patrimonio condiviso interiore o esteriore, superando la pulviscolarità delle singole esperienze.

E qui vengo al secondo punto: poesia come socialità, come condivisione. Ricordo durante la mia infanzia quando le mie carissime zia Alberta, zia Antonietta e zia Rosa, nei lunghi pomeriggi trascorsi insieme, recitavano le poesie che avevano imparato a memoria nella loro infanzia. Alcune di esse raccontavano la prima guerra mondiale, e nel mio immaginario cominciai a rappresentarmi le trincee, i corpi straziati, il dolore delle donne, le vite interrotte, il dolore per la perdita di tutto. Erano esperienze che non avevo fatto, ma mi arrivavano forti e chiare attraverso voci famigliari, come esperienze di prima mano. Attraverso quello stare insieme, attraverso la poesia, avevamo condiviso esperienze, conoscenza, in un modo talmente efficace che lo ricordo ancora. E ricordo ancora alcuni versi di quelle poesie con il colore delle loro voci dei loro occhi. Più delle numerose poesie lette nei tanti anni successivi di studio.

D’altronde, diceva Andrea Zanzotto , la poesia “vuol essere un po’ di tutto: musica, pittura, logos, corpo; insomma, ha infinite pretese”[6]. Deve puntare in alto, molto in alto, se intende essere di una qualche utilità. Zanzotto altrove, inoltre, suggeriva: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così, perché qui si trasmette per una serie di impulsi sotterranei, fonici, ritmici, ecc. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua»[7]. E qui arrivo al terzo punto: poesia come tensione verso “infinite pretese”, come ricerca non facile di espressione, di luce, di colore, d’infinito, pienamente realizzante le aspirazioni umane.

 

[1] King Lear, II, IV, 261.

[2] Mia traduzione.

[3] King Lear, II, IV, 263-264.

[4] Mia traduzione.

[5] Luigi Pirandello, Per uno studio sul verso di Dante, https://it.scribd.com/document/396655098/la-poesia-di-dante-1 e Cristiano Poletti, Dal canto loro, https://poetarumsilva.com/2014/04/01/dal-canto-loro/#_ftn2.

[6] Andrea Zanzotto, Conversazione sottovoce sul tradurre e l’essere tradotti in La traduzione del testo poetico, a cura di F. Buffoni, Marcos y Marcos, 2004.

[7] Risposta di Andrea Zanzotto a una domanda degli studenti di una scuola di Parma visitata nel 1980, citato in Stefano Dal Bianco, “Introduzione – Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto” in Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Mondadori, 2011, p. .

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