La poesia sarà sempre utile, a patto che sia tale

di Gianni Antonio Palumbo

 

 “Voi sentite la lirica come qualcosa di contrapposto alla società, di assolutamente individuale”, scriveva Theodor Adorno nel Discorso su lirica e società. In realtà, spiegava, “la pretesa della parola vergine è in se stessa sociale”. Ciò è vero nella misura in cui quanto più il mondo grava col suo fardello sul poeta, tanto più, liberandosene come dal nodo di Gordio, egli riscopre ciò che di profondamente umano vibra in sé. La distanza della lirica “dalla semplice esistenza diventa misura della falsità e del male di questa”. Queste parole, scritte da chi visse l’orrore dell’età dei totalitarismi, appaiono oggi terribilmente attuali.

Della poesia è quell’eterogenesi dei fini per cui, nell’epoca – scriveva Pascoli – che vedeva rotolare “per il vano circolo della passione le quadriglie vertiginose”, un poeta, Parthenias, ossia Virgilio cantò per cantare, perché sentiva che “sopra le fiere e i mostri aveva ancor più potere la cetra di Orfeo che la clava d’Ercole”. Eppure, quel “canto per cantare” ebbe l’energia di additare, nel momento storico dell’inesausta corsa al potere, la bellezza delle humiles myricae e di esprimere l’aspirazione alla pace nel sorriso di un bambino che accoglie i genitori ed è da loro accolto.

Ma qual è questa poesia che nella sua apparente inutilità si rivela utilissima? È e può essere ancora la poesia civile? Per comporre poesia civile non è necessario sguinzagliare le bighe della retorica. Inneggiare alla deposizione di ogni conflitto, raccontare di case distrutte e di bambini dall’infanzia lacerata finisce non di rado con l’avere quel sapore allotrio discaro a Benedetto Croce. Hanno più vigore di tutte le geremiadi passate e presenti e si incidono con maggior forza nel cuore l’“armonica guasta nell’ora / che abbuia” della montaliana Dora Markus o, dello stesso autore, la “nuvola bianca delle falene impazzite” della Primavera hitleriana che, sì, hanno la capacità e il vigore di iconizzare l’insensatezza di un’epoca intera. E quanti poeti, tra loro ricorderò Sannazaro, nella sua prosa Alla Sampogna ch’è pura Poesia, sono riusciti a esprimere il senso della crisi che induce ad ammutolire per il dolore: “secchi sono i nostri lauri; ruinato è il nostro Parnaso; le selve son tutte mutole; le valli e i monti per doglia son divenuti sordi. Non si trovano più Ninfe o Satiri per li boschi; i pastori han perduto il cantare”?

La poesia sarà sempre utile, a patto che sia tale. Perché dove “c’è poesia autentica” – scriveva Della Volpe – c’è sempre “verità sociologica” e ancora “rappresentazione simbolico-polisensa (…) di una realtà storica e sociale”. Così Giuseppe Conte nel recuperare il mito condensava un desiderio di purezza, quasi di primigeneità; Guido Oldani, nel suo “realismo terminale”, sostituendo alle persone gli oggetti mostrava la disumanizzazione cui siamo andati scientemente incontro; Umberto Fiori, nei suoi cani e nelle sue creature urlanti, ci ha additato la nostra realtà di persone che – per superare l’incomunicabilità che le divide – sono pronte a gridare – ciascuna più forte – il proprio Verbo incarnato.

“Una poesia è un gesto verso casa / Fa domande oscure che chiamo mie”, scriveva Jericho Brown, mentre (cito Francini nel numero 7 di «Nuovi Argomenti», maggio-agosto 2021) ci additava “la vulnerabilità del corpo (…) e i mascheramenti culturali delle violenze” inflitte ad esso, soprattutto se tua è la prospettiva altra, per esempio quella di un afroamericano omosessuale, in un Paese cosiddetto civile.

Ed è altamente sociale la voce di un Rafael Alberti, nel suo fermarsi (e, per converso, indurci a fermarci) a cogliere l’eternità in ciò che conduce la voce del vento: il fiume, la colomba.

Siamo sommersi di versi, eppure la Poesia muore, perché spesso la critica, che la dovrebbe auscultare, segue i tristi canali del clientelismo ormai inveterato nel nostro Paese; perché la cosiddetta grande editoria ha smesso di scommettere sui poeti. Perché il narcisismo dei salotti bene e della rete ne hanno fatto l’ennesima irritante fiera delle vanità. “Non so”, dichiarava il grande Harold Bloom, “se un altro Ungaretti, un altro Montale sarebbero ancora possibili. O anche Saba, l’immenso Saba”.

Credo che sapesse bene come siano ancora possibili e come esistano anche, pur restando magari nascosti agli occhi della moltitudine, così attenta a inseguire il baluginio dei riflettori e delle mode. Magari in questo momento un altro “giovin signore” si sofferma dal suo balcone ad ascoltare il canto di una Circe proletaria, ingenua nella sua speranza, e, dopo la sua morte, saprà trasformarne la dimora squallida in un santuario laico della poesia. Roba già sentita, direte? In fondo, non sbagliava Pio Rajna quando riconosceva nel nuovo la “metamorfosi del vecchio” e a che cosa ci ha portati letterariamente e culturalmente quest’ansia di novità (penso, in ambito educativo, all’ubriacatura di tecnologia favorita per le generazioni adolescenziali)? A cosa ci ha portati questa ‘svogliatura’ che ha prodotto tanta poesia autoreferenziale, non di rado condotta ai sette cieli dalla critica chic, ma del tutto inadeguata a suscitare una qualsivoglia emozione.  La poesia, a patto che sia tale, apparirà sempre nuova, perché nuovo e antico sarà l’uomo che in essa risuonerà. E non dimentichiamo che il vero poeta ha padri innumerevoli di cui si libera in una bloomiana “angoscia dell’influenza”, però è pur sempre e inevitabilmente modello a sé stesso. Grazie a questo dono saprà, prima o poi e comunque sempre, farsi strada nel battito del cuore dell’“intendente di poesia” – come lo chiamava Croce. Che non è necessariamente la persona ipercolta e non è di certo chi sguazza nel trogolo dei dibattiti televisivi e dei presunti programmi di realtà e di influence. L’intendente di poesia è chi si arresta, pensoso, dinanzi all’improvviso lampeggiare di un mistero che resta tale. Perché la poesia stessa è mistero, come lo è quest’umanità.

Per questo, la poesia sarà sempre utile, a patto che sia tale.

 

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