Il meglio di me di Daniele Giancane, Adda editore, 2022

di Cosimo Rodia

 

Daniele Giancane dopo più di mezzo secolo di poesia, compie un consuntivo, «prima del buio», e avvince! Dalla sua vastissima produzione, egli stralcia dei poemetti, da quello dei vent’anni, all’inedito del 2022, dalla cui trascelta traspare la giovanile forza contrastiva che si disperde lentamente in un dolce disincanto.   Di comune, tra i primi e gli ultimi versi, al di là di una certa maturità stilistica e una diversa visione esistenziale, troviamo lo stesso slancio di partecipazione poetica alla vita: «E forse la poesia/fu la via maestra/per sfuggire all’angoscia/che ci opprime:/divenire polvere,/nulla».

I primi poemetti antologizzati sono: Io (1969), Il monologo ininterrotto (1973) e altri tre tratti da Io &la scimmia pazza (1984).

Io è la poesia dei vent’anni, prorompente contro un ambiente urbano capace di spezzare i sogni. Nel secondo poema si sdipana una poesia dell’ansia, in cui diventa più cogente la perdita dell’infanzia, di quella vita povera ma sana, per correre verso un futuro fatto di sogni possibili: «I poeti sono la fanghiglia del mondo/Inseguendo albe incantate si gettano in pozzi di letami/per colmare vuoti di esperienza»; in realtà, sogni catastrofici di brutte vite metropolitane, di una inautenticità da indurre il poeta a dire che si vive nelle caverne: «L’amore la valle fiorita la musica l’estasi/il bene il male rivelato è di là».

Negli altri componimenti tratti da “Io & la scimmia pazza” si rafforza la visione apocalittica: nonostante l’uomo sia stato capace di evolversi, non riuscirà a sottrarsi al dominio degli uomini-topi, dice Giancane, denunciando apertamente il materialismo e il conformismo. In questa prima produzione si percepisce con evidenza l’ascendenza beat sul poeta, ovvero, quell’idea secondo cui la ricchezza materiale ha creato una schiavitù, da cui è necessario liberarsi, per riacquistare un’autenticità perduta. Sono poemi degli anni ’70 e Giancane non può non essere un visionario, perché siamo in pieno boom economico, che significava concretamente: auto, casa confortevole, vacanze… (Taranto lo avrebbe capito solo molto dopo, e tardi!).

Di caratteristico, nel poeta barese, è la critica al presente cui mancherebbe una visione di futuro, per questo egli si tiene stretto i valori del passato; ovverossia, il poeta sogna un futuro antitetico al presente, con un modello di felicità radicato nella civiltà passata.

I versi giovanili sembrano tutti costruiti nell’inseguire illusioni e dilemmi della vita morale: bisogna liberarsi degli stereotipi per tracciare percorsi di una vita “libera” (o liberata); la visionarietà del giovane poeta è accompagnata da una dimensione desertificata della vita (alla “The Waste Land”) in cui le gioie non sono contemplate e il futuro è ancora fosco.

L’ascendenza della poesia beat risiede sia nell’ansia di riconquistare una relazione franca, diretta, libera tra gli uomini, sia nella prosodia per l’uso del verso lungo e per un plurilinguismo antiaccademico.

La poesia filosofico-esistenziale, sotto forma poematica, rimane serpeggiante in tutta la produzione del poeta barese, per giungere ai versi dell’ultima produzione in cui lo spirito pugnace dello scrittore si mitiga, forse per la registrazione dell’ineluttabilità dei fallimenti umani.

Anche in “Il mondo di dove” vi sono visioni tragiche della realtà. Il primo comandante mentre si trova in mezzo al mare, con le acque che si confondono col cielo, ha la visione «del mondo che verrà», un mondo in cui l’uomo perde la “pietas” e invalida i sacrifici degli eroi che hanno fatto nascere nazioni, popoli, democrazie; la storia «è una macina» che «manda in pezzi le accumulate certezze».

Il secondo comandante ha altre visioni catastrofiche: «Immerso in una nebbia infernale» vede «terre desolate», da “The day after”, desertificate dall’industria, dagli scarichi, dalle guerre, dalle armi letali. Per salvarsi, i pochi sopravvissuti tornano nelle caverne, come nel «Quaternario». Di fronte a tante sciagure il comandante non può che piangere con la testa tra le mani, sperando che sia un sogno.

Il poema si snoda tra il presente e un futuro tragico. Ma anche se i capitani tornano in cabina avviliti, il lettore, di contro, a me pare, si carichi di forza agonistica, eroica, pronto a non mollare; ovverossia, di fronte alla paura si può rimanere o annichiliti o prendere il coraggio a due mani per progettare risposte possibili; Giancane propende per la seconda via: di fronte al dissolvimento della realtà, la risposta è non darsi per vinti.

La poesia del poeta pugliese, pur legata alla realtà, salta oltre il muro del dato reale, scoprendo l’invisibile nel visibile, che sarebbe appunto la terra di “Dove”, o quella terra che non è ancora ma che potrebbe presto essere.

Sembra che le visioni del professore barese abbiano un’affinità con “Il Battello ebbro” di Rimbaud; e anche se le navi giancaniane hanno sempre il capitano, gli spettacoli che si snodano nel racconto sono ignoti all’esperienza umana, che vanno al di là dei limiti del reale, proprio come nei versi rimbaudiani. In entrambi i poeti le esperienze delle imbarcazioni (battello o navi che siano) sono esperienze forti, tragiche, che vogliono proporre una via d’uscita (o un antidoto) alla deriva del mondo, perseguita evidentemente con un approccio quasi onirico.

In “Attraversammo le porte del sonno” Giancane continua con la sua poesia-ricerca e, seguendo la linea socratica di porre domande, richiama esempi sia mitologici sia reali, per concludere che il sogno è reale.

Il poeta barese affronta il tema da diverse angolazioni: da quello psicoanalitico, a quello mitologico, a quello surrealista. Lo scrittore largheggia nell’attraversare la visione mitologica e quella surrealista, secondo cui il sogno ha la possibilità di riscrivere una realtà parallela (“O forse quel sogno viene/da altri strati della coscienza,/che prevede il futuro/e conosce ciò che accadrà,/perché tutto è già scritto/nei disegni ultraterreni?).

Il poeta pugliese procede con interrogative dirette, seminando dubbi, con in nuce il tentativo di mettere in chiaro il funzionamento del pensiero senza il controllo della ragione, con l’interiorità dell’uomo capace di costruire novità, stili, visioni (Per Breton il sogno si genera in maniera illogica, in piena libertà e l’accostamento delle due realtà crea l’idea di un diverso ordine della realtà).

Il sogno dunque è vero e la cartina di tornasole per Giancane è la tradizione storico-mitica, così richiama le premonizioni del re babilonese, Nabucodonosor; il mito di Hypnos che crea Fobetone e Fantaso, sulla base del quale, il professore barese conclude che il sogno «non [dice] la falsità/ma un’altra verità ignota/a noi diurni»; ancora, ricorda il sogno di Astiage, re dei Medi cui gli avevano predetto che il figlio di sua figlia (Ciro), l’avrebbe rovinato (e veramente il piccolo divenuto adulto riscatta la Persia dai Medi); poi, rammenta il sogno di Costantino, servendosi del celebre affresco di Piero della Francesca; richiama Verlaine e la sua “Illusione du reve”, per ribadire che «noi viviamo già in uno stato di veglia/febbrile» (Verlaine aveva evoca, con la sua opera, una ricostruzione dell’unità tra l’anima e il mondo, grazie alla musicalità che dissolve e ricompone l’interiore e l’esteriore). Ergo, i sogni premonitori sono veri. Una verità confermata da un altro ragionamento compiuto dal poeta barese: Egli ricorda con nitidezza i volti dei personaggi sognati, ma non già quelli delle persone incrociate la mattina al bar, allora si chiede provocatoriamente quali dei due personaggi siano veri!

Così il sogno è vero per pregnanza e sostiene la vita nella misura in cui è capace, pur nella sua evanescenza, di riscriverla. Parafrasando Calderon de la Barca, Giancane accetta che «non siamo che larve di sogni», tanto da concludere in modo apodittico: «E davvero, allora,/tutto finisce/non quando la vita finisce,/ma quando finisce il sogno».

Shakespeare ne “La Tempesta” scrive: «Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni e la nostra breve vita è racchiusa nel sogno»; Giancane lo ribadisce con una domanda retorica: «Fra mille anni e per sempre/che sarà stato più sogno/Io o tu, lettore,/o i sogni che/ci frequentarono di notte,/imprevedibili?».

Infine, in Il meglio di me, Giancane propone un poemetto inedito: “Sì, la reincarnazione, amico”, che è un testamento umano, in cui l’autore si muove con dolcezza infinita in ciò che la vita concretamente preserva, ovvero, lo scorrere tumultuoso del tempo, in cui l’approdo rende esiziale ogni corsa individuale, ogni progetto, ogni slancio utopico, perché a fine corsa, prima del buio, ogni cosa si cancella: tutto «sarà nulla». La nostra vita è hic et nunc: dopo un «battito di ciglia» le grandi utopie diventano cenere, tutto cade nell’oblio per bagnarsi nel Lete; ciò nonostante se fosse concesso, da «un grande Cervello», di tornare sulla terra, pur dimenticando gli amori, le estasi, i piaceri, Giancane auspica che si prenda al volo la possibilità, perché la vita va vissuta, non foss’altro per rigustare piaceri e Bellezza.

Nell’intervista del 2011, che chiude Il meglio di me, Giancane ci dice, prendendoci per mano, che «Noi siamo parola e viviamo di parola», che «la vita quotidiana stessa è una sorta di ancella della poesia», sicchè senza uno sguardo poetico sul mondo «la vita è un deserto inaccettabile/un viaggio senza senso».

Ecco, Giancane, il Poeta, che ha trascorso una intera vita a cercare un fondamento, al nostro fugace passaggio terreno. Grazie.

 

Lascia un commento