Vito Davoli sulla poesia

 

La definizione di una utilità della poesia presupporrebbe l’identificazione di cosa sia poesia. Perché se ne comprenda l’utilità dovrebbe essere necessario sapere che cosa dovrebbe essere utile e a cosa dovrebbe essere utile. Al di là di una infinita letteratura sulle possibili definizioni di poesia che non citerò in questa sede accodandomi ad altri amici che pur nei loro interventi hanno cercato di definire e mettere a fuoco lo sguardo su questo possibile “fermo immagine”, credo di poter dire che la poesia è ciò che essa stessa diviene. Sapendo comunque di non aver detto praticamente nulla. Preferisco pertanto proporre il testo di Daniele Giancane Che cos’è la poesia, Tabula Fati 2021, certamente voce autorevole a cui fare riferimento con fiducia per poter avere un perimetro entro cui assestare una riflessione di questo tipo.

Detto questo mi spingo in un senso un po’ diverso, forse provocatorio, e condivido questa riflessione così com’essa è maturata di fronte alla sollecitazione di Cosimo Rodia nell’invito a un incontro dal titolo “L’inutilità utile della poesia” e che credo si inserisca perfettamente nel solco di una discussione che tende a considerare la poesia e più in generale la letteratura e la cultura letteraria in rapporto da un lato all’elaborazione e dall’altro alla fruizione soprattutto in ambito scolastico in quanto primo approccio, prima agenzia di socializzazione attraverso la quale il fruitore viene a contatto con la letteratura in senso profondo e pieno. Anche in quanto specchio di una capacità di relazioni umane che non può prescindere dallo scandaglio emotivo e sentimentale.

Riflettevo proprio sul titolo dell’incontro: L’inutilità utile della poesia. Curiosamente la riflessione è nata dall’errore di aver confuso – in una sorta di scioglilingua mentale – i termini utilità e inutilità fino ad arrivare all’ “utilità inutile della poesia”. Non è che cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambi: al contrario, la differenza è sostanziale. Se l’inutilità utile della poesia identifica l’inutilità come sostantivo e l’utile come aggettivo allora è inevitabile domandarsi perché è utile che la poesia debba essere inutile. Se cambio l’ordine delle parole, resta la domanda: perché dovrebbe essere inutile l’utilità della poesia? Posto che se ne identifichi una qualche utilità.

Senza dover necessariamente neppure sfiorare un ridicolo ambito di “complottismo” – culturale o di qualunque altra natura – e posto che, come sostenuto da Alfredo Traversa, si guardi alla poesia come espressione più alta della cultura letteraria, allora probabilmente uno sguardo alle contingenze contemporanee farebbero pensare che sia quasi necessario che la poesia debba restare avvolta nella sua bolla di inutilità. L’inutilità utile della poesia è l’utilità del fatto che resti inutile! Perché se la cultura in genere come elemento di conoscenza non può e non deve essere quell’elemento che fornisce la competenza e la conoscenza critica all’utente, al cittadino così come allo studente, vale a dire gli strumenti migliori per poter identificare e interpretare la realtà, allora è bene che sia inutile; perché è utile che il cittadino non abbia questi strumenti. E siccome in un contesto sociale e di diritto non glieli si può completamente sottrarre, una pratica di inibizione e di restringimento in un contesto di affascinante quanto sterile autoreferenzialità è più che sufficiente per sancire l’inutilità di cui sopra.

E non si tratta di un arcano disegno architettato e organizzato da chissà quali menti superiori ma semplicemente di una situazione che, così posta, banalmente crea meno problemi. E un problema prevede intanto il riconoscimento dello stesso, quindi la discussione e i successivi tentativi di risoluzione, ammesso che si voglia discutere e valutare diverse possibilità di soluzione e soprattutto ammesso che sia utile avere strumenti a disposizione di tutti per riconoscere un problema: fosse pure quello di interpretare la realtà attraverso una serie di dettagli di vissuto, sia individualmente che comunitariamente. Se si identifica un solco nel quale si vuole inserire un indirizzo sociale, per esempio la scuola, se cioè la scuola deve avere come unico obiettivo la professionalizzazione dell’utenza, la preparazione al mondo del lavoro e nulla più, si comprende bene il valore e il senso, per esempio, di prove a quiz (quelle ridicole verifiche che nel momento in cui scrivo qualcuno si è improvvisamente accorto che andrebbero riviste per inefficacia di fronte a un solo 5% di esiti positivi nell’ambito dell’ultimo concorso per la docenza nella secondaria) utili a risparmiare tempo e a concentrarsi sull’unico obiettivo “misurabile” di destinazione reale, senza troppe distrazioni di altra natura, tanto più se di natura “aerea”, intangibile, inidentificabile, non misurabile, appunto, letteraria o culturale. Se la scuola dev’essere professionalizzante, se dobbiamo risparmiare tempo, se dobbiamo produrre lavoratori, o forse meglio performers, allora chi se ne frega che siano cittadini consapevoli o meno! Ecco come e perché cultura, letteratura (e poesia come massima espressione delle stesse) non devono essere utili! Fanno perdere tempo che rendono improduttivo in senso misurabile e in questo modo si delinea il perimetro di quell’inutilità intesa – come si diceva all’inizio – non in senso stupidamente complottistico ma semplicemente non misurabile. In-utile è ciò che non dà utile, e quindi non è immediatamente né misurabile né quantificabile né proporzionabile.

Ci sarà una ragione se dalla scuola italiana scompaiono materie come la geografia o quella che una volta si chiamava educazione civica; se si discute l’utilità dell’insegnamento della storia o se si arriva perfino (nella prestigiosa Università di Princeton) a sostenere che i classici latini e greci sono “roba troppo vecchia” da poter essere ancora considerati utili a qualcosa!

Perché allora inutilità utile della poesia può convertirsi in inutile utilità? Perché finché rimane circoscritta e ristretta per esempio al concorso di poesia, al premio della sagra del lampascione a cui vado, prendo il premio, alzo la coppa e faccio lo splendido sui social, allora è utilissima! E a questo si riduce la sua utilità: a me e al mio circoscritto universo autoreferenziale; non voglio usare il termine “masturbatorio” che renderebbe meglio l’idea. Al di fuori di me come elemento sociale, come individuo parte di un corpo sociale, quell’utilità così definita non può più essere né accettata né valorizzata perché non rientra nei canoni e negli obiettivi che definiscono un’utilità (quella sopra specificata) diversa e non più conforme a quanto ritenuto necessario. Sembra si sia spezzato il filo comunicativo fra l’anima e il mondo, fra il poeta e il pubblico, fra la pagina e il lettore. E forse in questo anche i poeti dovrebbero rivedere un percorso storico e letterario dalle cui “colpe” non sono completamente immuni.

Socialmente siamo costituiti in senso tale che qualunque cosa non sia immediatamente misurabile e quantificabile con una “utilità” professionale, concreta, tangibile, usufruibile direi anche (e forse soprattutto) economica, si collochi (o vada collocata) nell’angolino del corredo, nella vetrina del servizio buono che non si usa mai. Il mazzo di fiori al centrotavola e niente di più.

Per cui l’inutilità utile della poesia è una sorta di propugnato obiettivo o accettata consapevolezza o ancora docile accettazione o disimpegnata rassegnazione a seconda dei punti di vista da cui la si guardi, quindi ormai in generale una acquisita e consolidata certezza che si tratti se non di tempo perso, certamente di un lusso nell’economia di tempo, che si può permettere chi abbia già una posizione consolidata che gli consenta di dedicarsi ad “altro”. Ecco, quell’“altro” è l’ambito della poesia; quello per il quale si dice che la cultura non riempia la pancia e a questo assioma tutto può essere adattato finché risulti così cinicamente rispondente e veritiero. E in questo senso non ne è risparmiato nessuno: né il fruitore, né l’attore; né il lettore né il poeta; né lo studente né lo scrittore; né l’insegnante né il critico.

E aggiungerò che peggiori e più difficili sono i periodi e i contesti storici a cornice, più e possibile e facile – da un certo punto in poi – verificare questa sorta di crasi, di distanza fra mondo reale, sfera della percezione emotiva, vissuto dell’individuo e funzione e utilità della letteratura e della poesia anche in quanto strumenti di esercizio e analisi critica del contesto antropologico generale.  Nell’attuale periodo storico, con una evidente drammatica situazione in Europa aggravata e portata al parossismo dalle ultime vicende della guerra in Ucraina, ancor più fuori luogo sembrerebbe la possibilità di mettersi lì a discutere di poesia e di letteratura o perfino a fruirne, a utilizzare, offrire e godere di parole che in qualche modo possano far luce e generare prospettive diverse di fronte alla realtà attuale e alla sua comprensione (insomma, il lavoro dell’intellettuale al quale l’intellettuale stesso ha ormai abdicato!) se solo l’idea di poter impostare un discorso più critico e a più ampio raggio si traduce inevitabilmente in una semplicistica e imbarazzante sintesi fatta di liste di proscrizione dalle quali non si salva neppure Dostoewsky, di rimodulazione di contratti televisivi della rete pubblica (ripeto: pubblica!) o di ancor più “significative” amenità quali «o con Putin o contro Putin». Quale spazio lascia un’impostazione del genere a possibili (e direi necessarie) analisi e discussioni su sé stessi e sulla realtà, sulla sua osservazione, sulla sua interpretazione? E di lì, sulla conseguente acquisizione di consapevolezza della stessa che sia qualcosa di più dallo snocciolare con faciloneria qualche frase fatta seduti al tavolino di un bar.

Come si reagisce, allora? Ci si rassegna a questa inutilità della poesia o a questa comoda definizione dei margini entro cui la poesia possa essere ritenuta utile o se ne possa accettare l’utilità? No, ovviamente. Assolutamente no! Sapientemente Giorgia Loi nel suo intervento offriva le prospettive di una possibilità costruttiva, certo profondamente complessa, che vada perseguita coraggiosamente e tenacemente, aggiungo, indipendentemente da possibili fallimenti, errori o calci nel sedere dai quali probabilmente nessuno è completamente immune.

E allora mi piace chiudere prendendo in prestito una parte della riflessione dell’amico Gianni Antonio Palumbo: «L’intendente di poesia è chi si arresta, pensoso, dinanzi all’improvviso lampeggiare di un mistero che resta tale. Perché la poesia stessa è mistero, come lo è quest’umanità. Per questo, la poesia sarà sempre utile, a patto che sia tale».

E torno così alla domanda iniziale e al titolo del testo di Daniele Giancane: che cos’è dunque la poesia?
Io credo che la poesia sia ciò che essa stessa diviene. E so, con questo, di non aver detto assolutamente nulla.

 

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