Il trovatore solitario e triste di Giovanni Berchet

di Italo Spada

 

Un uomo vaga, triste e solitario, in un fitto bosco. È un trovatore che, pur perseguitato dalla sfortuna, non ha ancora completamente perso gioventù e bellezza.

Girovagando per corti e città, ha rallegrato tanta gente con le sue canzoni; ha contribuito, anche se per poco tempo, a rendere loro meno monotona e meno dura la vita. Intendiamoci: non ha scelto di fare il trovatore per puro altruismo, ma soprattutto perché attirato dal fascino dell’avventura, dalla voglia di conoscere nuovi posti, incontrare nuove persone, sperimentare nuove sensazioni. Una bella vita, non c’è che dire, anche se piena d’incognite. I guai, per lui, iniziano lo stesso giorno in cui, per sua disgrazia, s’innamora della donna sbagliata: la moglie del signore che gli ha dato ospitalità. La prudenza, si sa, non è dei giovani e l’amore fa commettere passi falsi. Di giorno in giorno, il bel trovatore si fa sempre più audace: cambia le parole alle sue canzoni, allude chiaramente alla donna amata, canta e sospira. Una sera, il signore stenta a prendere sonno e, senza volerlo, pone attenzione alla musica e alle parole che gli arrivano da fuori. Non impiega molto tempo a capire che quel giovanotto s’è incapricciato della sua dama e le sta facendo delle spudorate avances. È troppo! In preda a cieco furore, il potenziale tradito balza dal letto e prende per il collo l’ingrato trovatore. È paonazzo, furente, accecato dall’ira e ha già sfoderato la spada. Accorrono tutti, ormai convinti di assistere ad un’inevitabile tragedia.  Quand’ecco che, tra i due, s’inserisce la donna: giura al geloso marito di non essersi nemmeno accorta della tempesta d’amore che aveva scatenato in quel giovane e implora pietà. A poco a poco, l’adirato signore cede alla bellezza e al sorriso della donna, si convince, si rasserena, muta il pugno in carezza. Ma ad una condizione: che il trovatore vada via per sempre dal suo castello. Senza dire una parola, gli occhi bassi per la vergogna e ancora tremante per lo scampato pericolo, titubante e umiliato, il trovatore varca la soglia e si allontana. Il dispiacere per la perdita dei favori e dell’ospitalità è grande, ma più grande ancora è il dolore di doversi allontanare definitivamente dalla donna amata. Non vedrà più i suoi occhi, non godrà più della sua presenza; a che pro, allora, cantare ancora? Una volta oscuratosi del tutto il sole che vivificava il suo estro e la sua arte, chi gli darà la forza per continuare a vivere?

 

Il trovatore fa parte della raccolta Poesie che Giovanni Berchet pubblicò a Londra nel 1824. Come altre analoghe ballate romantiche, si ispira a racconti medioevali che trattano amori tormentati, audaci imprese, tradimenti. È una soap opera d’altri tempi che, tuttavia, presenta le stesse ingenuità narrative dei fotoromanzi e delle telenovele televisive.

Il trovatore innamorato e imprudente risulta, alla fine, il personaggio più credibile. Sono gli altri due personaggi – marito e moglie, signore e dama – a suscitare maggiore perplessità. Il primo, infatti, alla sua iniziale balordaggine (ci voleva una notte insonne per capire quello che stava accadendo sotto i suoi occhi?), aggiunge la comica furia del tradito d’altri tempi (“Ti ammazzo! Giuro che ti ammazzo!”), un montone infuriato che diventa docile agnellino con una semplice moina femminile.  La seconda è un’ingenua poco credibile nella sua affermazione (“Ma che dici, caro? Non c’è niente! E chi s’è mai accorta di questo corteggiatore? Lo sai che io sono solo tua!), e troppo maliziosa con il suo sorrisetto languido per il marito e il cuore che trema per lo spasimante.

Ma forse non è il caso di fare un lavoro di scandaglio della psicologia dei personaggi in una storia costruita per dilettare e fare evadere. Il genere della “ballata” non va troppo per il sottile. Quello che accade ne Il trovatore (ma anche in Beautiful, Vento di Ponente, Anche i ricchi piangono) difficilmente accade anche nella realtà. Ma che c’è di male a lasciare immaginare la gente, a farle credere che sarebbe bello se accadesse veramente? Si dirà: ma perché quel finale triste? E perché no? Non è la prima volta che si sente dire: “Che bella storia! Ho pianto tanto!”

 

Il trovatore

 

Va per la selva bruna

solingo il trovator

domato dal rigor

   della fortuna.

 

La faccia sua sì bella

la disfiorò il dolor;

la voce del cantor

   non è più quella.

 

Ardea nel suo segreto;

e i voti, i lai, l’ardor

alla canzon d’amor

   fidò indiscreto.

 

Dal talamo inaccesso

udillo il suo signor;

l’improvvido cantor

   tradì se stesso.

 

Pei dì del giovinetto

tremò alla donna il cor,

ignara fino allor

   di tanto affetto.

 

E supplice al geloso,

ne contenea il furor;

bella del proprio onor

   piacque allo sposo.

 

Rise l’ingenua. Blando

l’accarezzò il signor:

ma il giovin trovator

   cacciato è in bando.

 

De’ cari occhi fatali

più non vedrà il fulgor,

non berrà più da lor

   l’obblio de’ mali.

 

Varcò quegli atri muto

ch’ei rallegrava ognor

con gl’inni del valor,

   col suo liuto.

 

Scese, varcò le porte;

stette, guardolle ancor:

e gli scoppiava il cor

   come per morte.

 

Venne alla selva bruna:

quivi erra il trovator,

fuggendo ogni chiaror

   fuor che la luna.

 

La guancia sua sì bella

più non somiglia un fior;

la voce del cantor

   non è più quella.

 
 

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