Materiale per un kolossal ne La collina dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters

di Italo Spada

 

Nella realizzazione di un film, il primo momento coincide con un’intuizione che si chiama “idea”. In questa fase, dove tutto è ancora vago e imprecisato, è possibile intuire già la trama che apparirà in modo più lineare nella definizione del soggetto e nella stesura della sceneggiatura.

Tra l’idea e il soggetto, tuttavia, ci sono altri momenti non codificati, come quello della comunicazione verbale agli amici, dello scambio di idee tra addetti ai lavori, della messa a fuoco di alcuni particolari, ecc.

Qualcosa di analogo avviene anche a film ultimato. Oltre la pubblicità della casa produttrice, le comunicazioni ufficiali della distribuzione, le recensioni dei critici e gli articoli che appaiono su riviste e giornali, ci sono anche i semplici commenti degli spettatori, le chiacchiere tra amici, i pareri e il modo di raccontare la trama della gente comune.

La collina, tratta dall’ Antologia di Spoon River1, è qualcosa che somiglia a una scaletta filmica – che non è più idea e non è ancora soggetto -, o a un racconto sintetico, fatto da chi ha già visto il film a chi ha intenzione di andarlo a vedere.

Vengono narrate, in sintesi, diverse storie di personaggi che hanno in comune il luogo di appartenenza e la collina nella quale riposano in pace. C’è materiale per una saga paesana, dove il vero protagonista è il paese che vede scorrere la vita dei suoi abitanti e assiste impotente all’opera del destino che, pur tessendo per ognuno di loro trame diverse, le fa confluire in un unico finale. La domanda retorica, che l’anonimo narratore pone e si pone con l’espediente filmico della Voce Fuori Campo (Dove sono?… Dove sono?… Dove sono?…), serve a ricucire le varie storie.

Ma di quali storie si tratta? Vediamole una per una, rispettando l’abbinamento voluto da Edgar Lee Masters tra i nomi dei personaggi, le loro caratteristiche e la loro fine.

C’è un primo gruppo composto da cinque ragazzi, spensierati e “vitelloni”, costretti a fare i conti con un destino senza cuore.

Apre Elmer, l’abulico. Mai un’iniziativa personale, un’idea. A lui sta bene tutto quello che gli altri decidono. Non ha personalità, ma non si è mai tirato indietro. Una vita senza gloria che non poteva avere diversa conclusione. Una febbre maligna e misteriosa lo condanna a giorni di sofferenza e poi se lo porta via.

Herman, invece, è un ragazzo robusto e atletico. Dopo le allegre nottate della gioventù, mette la testa a posto e va a lavorare in miniera, dove è sempre notte, ma senza birra e donne. Un giorno – o era sera? – qualcuno urla: “Al fuoco! Al fuoco!“.  In quei casi, come gli hanno sempre ripetuto, bisogna lasciare tutto, scappare e cercare solo di salvare la pelle. Ma Herman non capisce quello che sta succedendo, o forse sente troppo tardi l’avvertimento e resta in trappola a fare la fine del sorcio con altri disgraziati compagni, fino a quando delle sue e delle altre ossa non tirano fuori che un mucchietto di cenere.

Bert è il buffone della compagnia. Prende tutti in giro, anche chi ha la luna storta. Un giorno qualcuno gli dice: “Ora basta, Bert, non esagerare“; ma per lui niente è più eccitante di un uomo permaloso: continua con le sue battute che si fanno sempre più pesanti fino a quando non scoppia la lite. Non è la solita scazzottatura che si vede in certi film western; questa volta spunta fuori un coltello e Bert cade, ridendo, quasi a volere convincere se stesso e gli altri che si tratta di una delle sue solite beffe. Ci si aspetta che, da un momento all’altro, egli si rialzi e faccia morire gli altri, ma di risate. No; Bert il buffone, da quella sera, non s’è più rialzato.

Tom è un ubriacone. Certe notti non trova nemmeno la strada di casa e se non fosse per Herman e Charkey, che se lo incollano in spalla, starebbe tutta la notte in un cantuccio del paese. Ora che i suoi amici non ci sono più, a raccattarlo dall’osteria o dalla strada ci pensano i poliziotti. Una, due, tre volte; fino a quando Tom, guidato dall’alcool, non scioglie la sua litania di bestemmie e sputa in un occhio ad uno di loro. Offesa a pubblico ufficiale e galera. Ha ormai il fegato a pezzi. Nell’umidità del carcere, Tom sogna botti di wisky; e poi, una notte, non sogna più nulla.

E’ facile pronosticare per Charkey una fine come quella di Bert, perché in tutto il paese non c’è rissa senza di lui. “Un giorno o l’altro – gli dice suo padre – troverai qualcuno che te le suona di santa ragione“. E sua madre: “Smettila, Charkey! Se non vuoi che io muoia prima dei miei giorni,  cercati un lavoro che ti tenga lontano dai cattivi compagni.” E così Charkey – che è in fondo un bravo ragazzo –  s’è cercato un lavoro. Uno di quei lavori duri che danno la possibilità di mettere da parte qualche quattrino. Lavora sodo per sé e per i suoi parenti, perché non vuole che i suoi figli per mancanza di soldi crescano senza istruzione come lui. Forte della sua forza, un maledetto giorno, mentre se ne sta appollaiato su un ponte a tirare su una trave da solo, mette un piede in fallo e precipita tra la calce e il gesso.

Altre storie nel secondo gruppo, quello delle ragazze. Storie d’amore, ovviamente.

La tenera Ella (Oh, quante volte le altre ci hanno riso sopra su questa sua caratteristica chiamandola, in verità senza eccessiva fantasia, la Tenerella!) non sa cosa sia l’amore, benché senta le altre parlarne senza inibizioni. Lo scopre all’improvviso, durante una festa nella quale tutti ridono, bevono e ballano. E’ un amore che ha la faccia di un signore distinto che le porge la mano, la trascina in mezzo al gruppo, la stringe a sé, la bacia sul collo. La sensazione nuova e piacevole le fa capire improvvisamente la passione di Lizzie per il ballo, le maliziose battute di Mag sul sesso. Ubriaca di vino, carezze e promesse, perde la sua verginità ai piedi d’un faggio. L’amaro risveglio nei mesi seguenti: l’uomo è sposato, ha già quattro figli e vive a Peoria. Un altro figlio? Lasciare la moglie? Neanche a parlarne. In preda al terrore, Ella si affida alle erbe e ai ferri della più squallida mammana di Springfield e muore mordendo il lenzuolo.

Né più felice è la storia di Kate, semplice e dolce Giulietta del XX secolo, che crede sia semplice amare Romeo. Verona ha mille città gemelle sparse nel mondo e troppi  Capuleti e Montecchi si nutrono ancora di pregiudizi. Senza la tragica messa in scena di una finta morte, senza veleni e pugnali, Kate e il suo Romeo, un’anonima sera, vanno incontro al treno delle 23, tenendosi per mano sui binari, senza un gemito di risposta al fischio straziante della locomotiva.

Mag, al contrario, non si è mai illusa. Ha guardato il mondo negli occhi e ha accettato la sfida. Prima a Spoon River, con un padre violento che si slacciava la cinta e la picchiava senza motivo, poi lontano da casa, in giro per l’Illinois. Forse, Mag ha nel sangue il vizio di urlare; lo fa anche quando qualche cliente non vuole pagare. Una sera si sente più forte il duetto (“Bastardo!” “Puttana!”), cade uno specchio, abbaiano i cani. Due giorni dopo, alla polizia federale che è andato a scovarlo nei campi, il fratello risponde: “Mag? Mia sorella? Non era già morta?”.

Una fine, quella di Mag, che Edith non avrebbe mai fatto.

Troppo orgogliosa della sua femminilità, va ripetendo alle sue amiche che preferisce restare zitella, piuttosto che sposarsi con un uomo per il quale non sente alcuna attrazione. Il fatto è che gli uomini, a Spoon River, sono quelli che sono. Se Edith ha intenzione di pescare in mezzo a quei bovari  il principe azzurro è meglio che si faccia suora! Gente di poca fede! Anche a Spoon River arriva l’estate e, con essa, il villeggiante colto, bello, ricco e affascinante. E’ subito amore. Edith diventa la donna più invidiata della zona e già fervono i preparativi per un matrimonio da favola. La sorpresa  arriva quando decide di andare a trovare senza preavviso il futuro sposo nella casa che dovrà diventare il loro nido d’amore: sul letto matrimoniale nuovo di zecca, lo trova nudo e abbracciato alla serva di colore. E’ uno schiaffo crudele al suo orgoglio. Dopo avere annullato le nozze, Edith si chiude in se stessa, non parla, non esce di casa, non mangia. Come una candela, resta accesa finché dura la cera.

Delle cinque ragazze, solo Lizzie è felice. Fa parte di un corpo di ballo e vola a Londra e a Parigi, inseguendo la vita tra fasci di rose e cene al lume di candela. Ha mille uomini, ma nessun amore; perché non vuole fare la fine delle sue amiche, perché è innamorata dell’arte, perché ama viaggiare, perché ha deciso così. Quando le gambe non le reggono più, a bellezza sfiorita, scrive un diario e l’ultima pagina è un desiderio preciso. La riportano gli altri a Spoon River.

Se potesse parlare, Spoon River racconterebbe ai suoi abitanti tante altre storie dimenticate i cui protagonisti si chiamano zio Isac, zia Emily, il vecchio Towny Kincaid, Sevigne Houghton, il maggiore Walker. Gente che ha visto la guerra e ha patito la fame, che è partita senza fare più ritorno, che sembrava dovesse vivere in eterno e che nessuno ricorda più.

O forse sì, qualcuno che parla ancora di loro c’è: è Fiddler Jones, un vecchio che strimpella il violino e che, a novant’anni suonati, ha ancora voglia di vivere. Lo conoscono tutti in paese. Di lui si raccontano strane avventure che, tramandate di padre in figlio e trasmesse di bocca in bocca, diventano strabilianti e inverosimili. “Era – si dice – un folle“. Le storie di Elmer, Herman, Bert, Tom e Charkey, impallidiscono al confronto con la sua, piena di gesti clamorosi, di schiamazzi, di scherzi pesanti. Come quella volta in cui, pur essendo una fredda giornata invernale, andò in giro a petto nudo per tutto il paese, declamando la filosofia di Zenone di Elea  e gli argomenti contro il movimento (“Achille e la tartaruga“) e contro la percezione sensibile e i suoi limiti (“Se un grano di miglio cadendo non fa rumore, come può farlo allora un medimno di grani di miglio?”). Altro che folle! Il vecchio Jones era – è – un filosofo. E’ l’unico uomo che, nel rodeo del microscosmo chiamato Spoon River, ha domato la vita bevendo, facendo chiasso, non pensando né a prendere moglie, né a fare felici i parenti. Fiddler Jones, con un violino rotto, una mezza risata, mille ricordi, ma nemmeno un rimpianto, ha sputato in tre direzioni: verso il basso al denaro, nel centro all’amore,  in alto al cielo. E mentre gli altri, adesso, dormono nel cimitero sulla collina, egli parla di come si friggeva quand’era bambino, di come si correva una volta nel boschetto di Clary, di come si faceva politica ai tempi di Abramo Lincoln; il vecchio, caro Abe, rispetto al quale i politicanti di oggi sono solo dei lustrascarpe.

 

 

La collina

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charkey,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

 

Uno trapassò in una febbre,

uno fu arso nella miniera,

uno fu ucciso in rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

 

Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di un parto illecito,

una di amore contrastato,

una sotto le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,

una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,

ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dove sono zio Isac e la zia Emily,

e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,

e il maggiore Walker che aveva conosciuto

uomini venerabili della Rivoluzione?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

 

Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,

e figlie infrante dalla vita,

e i loro bimbi orfani, piangenti –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dov’è quel vecchio suonatore Jones

che giocò con la vita per tutti i novant’anni,

fronteggiando il nevischio a petto nudo,

bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti,

né al denaro, né all’amore, né al cielo?

Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,

delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,

di ciò che Abe Lincoln

disse una volta a Springfield.

 

 

1 Tra il 1914 e il 1915, il poeta americano Edgar Lee Masters pubblicò sul “Reedy’s Mirror” di St. Louis una serie di epitaffi successivamente raccolti nell’Antologia di Spoon River. Ogni poesia racconta la vita di una persona  vissuta alla fine dell’Ottocento in una cittadina del Midwest. Ci sono 19 storie che coinvolgono un totale di 244 personaggi che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri degli uomini. Masters si proponeva di descrivere la vita umana raccontando le vicende di un microcosmo, il paesino di Spoon River. In realtà si ispirò a personaggi veramente esistiti a Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield. Interessante anche la storia della pubblicazione in Italia dell’Antologia, avvenuta durante il ventennio fascista per opera della casa editrice Einaudi. Cesare Pavese, che fu il primo a “importare” l’Antologia in Italia,  regala una copia del libro a Fernanda Pivano, la quale ne resta affascinata e ne cura la traduzione. Per evitare la censura del ministero della cultura popolare, Pavese suggerisce di cambiare  il titolo in “Antologia di S. River”, spacciando la raccolta come “pensieri di un quanto mai improbabile San River.”

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