Il poliedrico Sinisgalli

di Sandro Marano

 

«Vengono anch’essi a scaldarsi
accanto al camino i vecchi Dei.
Viene intirizzita a chiederci asilo
la civetta della neve»

Questa breve poesia di Leonardo Sinisgalli intitolata La civetta della neve, tratta dalla raccolta La vigna vecchia del 1952, racchiude tutto un mondo, quello contadino della Lucania, ai cui ritmi e alle cui usanze il poeta resterà sempre legato. L’inverno e la neve isolavano letteralmente i paesi di montagna. Il camino attorno al quale si riunivano le famiglie per passare il tempo e raccontarsi vecchie storie rappresentava l’unica salvezza dai rigori del freddo. Ma il calore del fuoco, attirando pure gli dei e la civetta, è anche, metaforicamente, il calore dei pensieri e degli affetti. In una pagina di prosa memoriale di Furor mathematicus (1944, poi 1950), che sembra quasi un commento a questi versi, il poeta lucano scriveva:

«L’inverno ci stringe d’assedio nella nostra solitudine. […] Nelle nostre stanze il fuoco ha questo crepitio continuo, questo attizzarsi, questo mangiarsi il proprio cuore insaziabilmente. […] La nostra agitazione rimane lungamente sedata da questo tranquillo letargo dei sensi. Eppure non ci sentiamo mai così vivi come in questi giorni che acqua e vento restringono intorno al nostro corpo, come intorno a una sepoltura. […] Cerchiamo di capire la vera natura del fuoco, tanto vicina alla sostanza dei nostri pensieri. Nessuno ormai dubita dello stimolo che venne a Cartesio dal calore acido della stufa quando, in quel lontanissimo inverno, stendeva le prime miracolose pagine del Discorso».
Artista poliedrico, il poeta lucano era attratto sia dalla cultura umanistica che dalla cultura scientifica. Di entrambe sostenne sempre la conciliabilità. Laureatosi in ingegneria industriale, Sinisgalli fu non solo poeta, ma anche narratore, grafico pubblicitario (suo è il nome Giulietta per la famosa auto dell’Alfa), disegnatore, pubblicista, autore radiofonico, direttore della prestigiosa rivista Civiltà delle macchine per la Finmeccanica. Poeticamente si affermò con le 18 poesie pubblicate nel 1936 dall’editore Scheiwiller in un piccolo formato da taschino, nelle quali si sente l’influenza dell’ermetismo di Ungaretti e soprattutto di Quasimodo:

«Eri dritta e felice  

Sulla porta che il vento  

Apriva alla campagna.

Intrisa di luce

Stavi ferma nel giorno,

Al tempo delle vespe d’oro  

Quando al sambuco

Si fanno dolci le midolla.  

Allora s’andava scalzi  

Per i fossi, si misurava l’ardore  

Del sole dalle impronte  

Lasciate sui sassi.»

Ma già faceva capolino, al di là dell’oscurità propria alle movenze ermetiche, un’estrema leggibilità e un verismo che si affermerà pienamente, dopo la raccolta Vidi le muse del 1943, nelle raccolte I nuovi Campi Elisi del 1947 e La vigna vecchia del 1952.
Per il poeta lucano la fanciullezza è l’età bella per antonomasia, con i suoi giochi e i suoi rituali, la sua felice incoscienza, la sua innocenza paradisiaca. La nostalgia della civiltà contadina fa tutt’uno col rimpianto dell’infanzia (non pienamente goduta dal poeta costretto all’età di dieci anni a lasciare il paese e la famiglia per il collegio) e trova nei suoi versi un’espressione delicata e partecipe come ne La luna nuova di settembre tratta da I nuovi Campi Elisi:

«La luna nuova di settembre  

ha cacciato i ragazzi sulla via.  

soffiano nelle mani, un po’ vili  

un po’ pazzi, rifanno il verso  

alla puzzola che si duole.  

Ruzzolan nei cortili  

tra i rovi e i calcinacci  

a far razzia.  

Hanno le ali ai piedi,  

stringono le uova calde nelle tasche.  

Li asseconda la luna che addormenta  

i guardiani sulle frasche».

In una bella pagina di Che cos’è la filosofia? il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, marcando la differenza tra la filosofia dei Greci (realismo) e quella dei moderni (idealismo) – e qui torna l’accenno fatto da Sinisgalli a Cartesio con la sua scoperta della coscienza e della soggettività – scrive: «L’innocente, colui che non dubita, che non ha malizia né sospetta, si trova sempre, come l’uomo primitivo e l’uomo classico, circondato dalla natura, da un paesaggio cosmico, da un giardino; e questo è il paradiso. Il dubbio scaccia l’uomo dal paradiso, l’uomo dalla realtà esterna. […] Dal paradiso, che è attenzione a ciò che vi è di esterno, propria del fanciullo, egli procede verso l’interiorizzazione, verso la malinconia del giovane. […] Ad un Adamo paradisiaco succede un gemebondo Adamo adirato!».

Allora. Il paradiso perduto si può ritrovare? Riconquistare? O solo sognare? E la tecnologia che ruolo svolge? In una breve poesia, Mi basta un niente, contenuta ne I nuovi Campi Elisi, Sinisgalli sembra ormai rassegnarsi:

 «Mi basta un niente, uno sterpo  

per sorreggermi. I galli  

cantano di là tra i sassi  

di Gannàno. Come sembra lontano,  

se mi stendo nel viottolo,  

il frutto di ieri, il fiore di domani!».

Chissà cosa direbbe il poeta-ingegnere oggi che la sua amata val d’Agri viene rovinata dalla furia delle trivelle ed appare sempre più evidente che la tecnologia non ha sempre ragione.

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