Pavese e la solitudine ontologica

di Sandro Marano

 

«L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio

e le stelle vacillano. Un tepore di fiato

sale su dalla riva, dov’è il letto del mare, 

e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla

può accadere. Perfino la pipa tra i denti

pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.»

 

Questi sono i versi iniziali de Lo steddazzu di Cesare Pavese (1908- 1950), la poesia che chiude la raccolta Lavorare stanca (nell’edizione più ampia del 1943) e che contiene il Leitmotiv non solo di tutta la sua produzione poetica e letteraria, ma anche della sua vita, conclusasi tragicamente col suicidio: un’invincibile solitudine, un disagio esistenziale che via via si approfondisce e diventa insormontabile fino a vanificare ogni comunicazione con la natura e, in particolare, con gli altri uomini e con le donne.

«Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci?», si chiede il poeta nel componimento citato e prosegue: «Domani / tornerà l’alba tiepida con la diafana luce / e sarà come ieri e mai nulla accadrà».

La prima edizione di Lavorare stanca, com’è noto,  fu pubblicata da Pavese nel 1936 dopo la rielaborazione dei testi scritti tra il 1932 e il 1935 nei mesi passati al confino a Brancaleone Calabro, cui era stato condannato per una presunta attività antifascista. A questo proposito ha gettato «una nuova luce sull’uomo e sull’intellettuale la pubblicazione del suo Taccuino segreto, 29 pagine del diario che decise di non pubblicare, stralciandole dal Mestiere di vivere, ma decidendo di conservarle» (Manlio Triggiani, Il controverso rapporto dello scrittore Cesare Pavese con il fascismo, in Barbadillo, 20 novembre 2020), nel quale lo scrittore esprime, fra il 1942 e il 1943, decisi apprezzamenti sulla Repubblica Sociale Italiana e sulla Germania del tempo.

Le poesie di Lavorare stanca si sviluppano come poesie-racconto e costituiscono «il controcanto più deciso» (Pier Vincenzo Mengaldo) all’ermetismo e alle altre forme poetiche novecentesche. Il tentativo letterario di Pavese è rimasto sostanzialmente isolato nella letteratura italiana, mentre nella letteratura americana la poesia-racconto ha avuto un largo sviluppo soprattutto con Raymond Carver e Charles Bukowski e, per certi versi, con Jorge Luis Borges.

Le poesie sono scritte in un linguaggio colloquiale, prosastico, che simula il parlato, con un ritmo cantilenante dato dal verso lungo, ispirato al poeta americano Walt Whitman, e dalla metrica adoperata, nella quale prevale il verso di tredici sillabe (un senario unito al settenario). Si tratta in genere di brevi storie con vari personaggi «che oscillano tra referto realistico e proiezione dell’autore stesso» (Pier Vincenzo Mengaldo). Tra questi troviamo il cugino de I mari del sud che è stato in giro per il mondo, la prostituta dei Pensieri di Deola, l’eremita «del colore delle felci bruciate» (Paesaggio), il ragazzo che «spiava gli amori dei gatti» (Avventure), l’uomo solo di Lavorare stanca e de Lo steddazzu, la donna avvizzita dalle troppe gravidanze di Una stagione:

 

«I vestiti diventano vento le sere di marzo  

e si stringono e tremano intorno alle donne che passano.  

Il suo corpo di donna muoveva sicuro nel vento  

che svaniva lasciandolo saldo. Non ebbe altro bene  

che quel corpo, che adesso è consunto dai troppi figliuoli».

 

Apparentemente strutturate nel segno del realismo, le poesie hanno però anche un valore simbolico. Rivendicando la coerenza formale del suo canzoniere in A proposito di certe poesie non scritte, uno dei due testi critici posti in appendice all’edizione del 1943, Pavese definiva Lavorare stanca «come l’avventura dell’adolescente che orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza».

La figura di Gella nella poesia Gente che non capisce è a questo proposito emblematica:

 

«Gella sa che sua madre da giovane è stata in città

una volta: lei tutte le sere col buio ne parte  

e sul treno ricorda vetrine specchianti  

e persone che passano e non guardano in faccia.

La città di sua madre è un cortile richiuso

tra muraglie, e la gente s’affaccia ai balconi.

[…]

Gella è stufa di andare e venire, e tornare a sera  

e non vivere né tra le case  né in mezzo alle vigne.

[…]

Anche Gella vorrebbe restarsene, sola, nei prati  

ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.  

E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba  

e magari nel fango e mai più ritornare in città.

[…]

Finché le colline e le vigne  

non saranno scomparse, e potrà passeggiare

per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo,  

Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.»   

 

Ma se la città non può minimamente lenire la sofferenza di chi è solo, le vigne, le colline, il cielo stellato che fanno da splendido sfondo a gran parte delle sue poesie, pur continuando a parlare all’uomo, se non altro perché la campagna sembra venire incontro alla ricerca di unità e di felicità dell’uomo, non riescono più a penetrare nel suo cuore, hanno ormai perso il loro incanto a causa dell’industrializzazione e del conseguente sradicamento:

 

«Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare  

sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,  

ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.»

(Mania di solitudine).

 

In uno dei suoi testi più significativi, La psicologia dei processi inconsci (1917), lo psicologo Car Gustav Jung notava non a torto come gli uomini di città siano ormai lontani dalla vita dei campi e dall’attività variegata del contadino «che col suo contenuto simbolico, gli garantisce una soddisfazione inconscia che l’operaio della fabbrica e l’impiegato d’ufficio non conoscono e non possono mai avere».

Il tema della solitudine ontologica dell’uomo, dell’incomunicabilità, del male di vivere sullo sfondo di una crisi storica ed epocale è  lo stesso tema, cui danno voce, a partire dagli anni ’30, le varie filosofie esistenzialiste o i romanzi filosofici come Fuoco fatuo (1931) di Pierre Drieu La Rochelle, La nausea (1938) di Jean-Paul Sartre, Lo straniero (1942) di Albert Camus e, poco più avanti, film come quelli della famosa trilogia di Michelangelo Antonioni: L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclissi (1962) o come 8 e ½ (1963) di Federico Fellini.

 

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