Castello D’Ayala Valva, Carosino (Ta), 9 luglio 2022, Terza edizione – LEGGIAMO IN DI-VERSI 

di Cosimo Rodia

 

Siamo alla terza edizione di “LeggiAMOci in di-versi” e molta acqua è passata sotto il ponte. Intanto, in circa tre anni, si sono sedimentate amicizie, collaborazioni e c’è stata una forte spinta emotiva a far nascere il Portale di letteratura: INTERZONA NEWS, che già consta di importanti collaborazioni sia nel campo della ricerca sia nel campo della creatività e della voce poetica.

La terza edizione cade in concomitanza con l’uscita del volume collettaneo “Sulla poesia”, Interzona news edizioni, che contiene gli interventi della tavola rotonda virtuale che il Portale ha organizzato il 21 marzo 2022, in occasione della Giornata mondiale della poesia. La serata del 9 luglio la considero senza soluzione di continuità con quella.

La terza edizione di “LeggiAMOci in di-versi” si realizza con una leggera variazione del format originario; ogni poeta intervenuto (Maria Antonella D’Agostino, Vito Davoli, Daniela Fontana, Rita Greco, Imma Luccarelli, Sandro Marano, Gianpaolo G. Mastropasqua, Aldo Perrone, Marina Pizzi, Pietro Santagada, Carla Saracino), legge un poeta canonizzato, per massimizzare lo sforzo di diffusione della bellezza della poesia.

Ecco i testi:

 

Maria Antonella D’AGOSTINO

 

Incongruenze

Mentre il mondo muore

di guerre

e d’assurdo,

rifiorisce il mandorlo

negli angusti spazi

oltre la mia finestra,

costruisce il nido

la gazza

sulla vecchia robinia.

Un angolo di primavera

sul male

e sul grigiore umano.

(Maria Antonella D’Agostino, Inedita)

 

Prima di tutto l’uomo

Non vivere su questa terra
come un estraneo
e come un vagabondo sognatore.
Vivi in questo mondo
come nella casa di tuo padre:
credi al grano, alla terra, al mare,
ma prima di tutto credi all’uomo.
Ama le nuvole, le macchine, i libri,
ma prima di tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza del ramo che secca,
dell’astro che si spegne,
dell’animale ferito che rantola,
ma prima di tutto senti la tristezza
e il dolore dell’uomo.
Ti diano gioia
tutti i beni della terra:
l’ombra e la luce ti diano gioia,
le quattro stagioni ti diano gioia,
ma soprattutto, a piene mani,
ti dia gioia l’uomo!

(di Nazim Hikmet)

 

Vito DAVOLI

 

Adamo mio

Hai una mela, amore? Te ne prego,

questa scarna beatitudine mi uccide.

Dammi una mela, amore, che l’affondo

giù nella gola fino a soffocare,

dimenticare questa grazia oscena

di una domenica che scioglie mille anni,

di un giorno torrido che ferma il tempo dove io non sono.

 

Ruba per me una mela, amore.

Voglio quella lassù, lontana

quella impossibile, mela o melograno

purché qualcuno si risvegli

dai fuochi fatui dell’onnipotenza.

 

Tuo è il regno

Tua è la potenza

E la gloria nei secoli.

 

Tienili pure

ma a me lascia la vita

la conoscenza, la mia umanità

in una mela o dove meglio credi.

 

Anche il nocciolo, amore, raccoglilo

ché tanto si semina.

Io ho pazienza.

 

(Vito Davoli da L’inquieta armonia. Antologia di poeti pugliesi contemporanei, a cura di Angelo Lippo, Edizioni Portofranco, Taranto 2002)

 

Tratturo

Entrino, entrino con me in questo tratturo,

sotto la luce tenue della pioggia.

 

Entrate, amici, e constatate quello che si sente

Quando negli occhi s’adagia

il verde della vita.

 

Date un’occhiata al fondo vegetale della Terra,

ombre feline, sudori

di chi è ormai parte del mio sangue.

 

Osservate con me passeri e scimmie,

cinture di felci o visi stanchi

di tenaci castagnai.

 

Dissi una volta: «Come sarà

quando toccherà a me fare da guida?»

 

Entrino, entrino con me.

Vi invito ad un passeggio arricchito

dal lampeggiare di reminiscenze.

 

(Alfred Perez Alencart da Madre Selva, Trilce Ediciones, Salamanca España, 2002)

 

 

Daniela FONTANA

 

Tentativo di ricomposizione

Il favore della luna nera

saprà renderli complici

infiorerà discorsi, parole

in cerca, esaltazioni

inchiostrate d’argento.

È mancato (in totale

insopravvivenza) l’accento

isolano, il fare contorto,

l’occhio lungo – lince in

perenne stato di perlustrazione.

È mancato in preghiera

e in peccato, in lungo

ed allargato, in bene e pace,

perfino nel discorso

ammaestrato dall’imbonitore.

Filtra vocalizzi e lascia

al caso il risultato.

Spostati! Così, più a lato,

frammenta il non detto

e tracima. Saprà accoglierti

– dalla punta all’apice –

scenderà fino allo Stige

per ricomporre il corpo

straziato di Osiride

tenterà la via dal profano

al sacro. Disseminati

intorno, scambi screziati,

voli intatti al di là della follia.

(Daniela Fontana, da Presagi di salvezza)

 

Cineraria

Picca uccello di passo, il muro è da tanto sorvolato,

già bianco il ramo sopra il cuore e il mare

            sopra noi;

il colle degli abissi infrondato di stelle meridiane –

un verde senza veleno come quello degli occhi che lei

            aprì morendo:

incavammo le mani per attingere dal torrente in piena –

l’acqua del luogo dove abbuia e a nessuno viene teso

            il pugnale;

intonasti anche un canto e intrecciammo una grata

            nella nebbia:

forse verrà ancora un boia e tornerà a batterci

            un cuore,

forse ci rotolerà ancora addosso una torre e verrà eretta

            tra il giubilo una forca,

forse ci sfigurerà una barba e i suoi capelli biondi

            diventeranno rossi…

 

Il ramo sopra il cuore è bianco già, il mare sopra noi.

(Paul Celan da La sabbia delle urne)

 

Rita GRECO

 

Tutte le parole alla rinfusa

sillabe scoscese canti in divenire

oh la luce buona di certe mattine

quando ogni gesto ha una destinazione

braccia di madre tese a fare il mondo

a schiodare il dolore da tutto il creato.

 

Senti che sinfonia il nuovo giorno

senti il cielo crepitare di pungente gioia

e tutti i pianeti scintillano nei tuoi occhi

nei tuoi occhi danza la vita musicante e io

e io così piccola e buia

non riesco a contenerla.

 

Angeli del sogno, venite in moltitudini

portateci in dono lo splendore alato

che è stato nostro

e non lo ricordiamo più

portateci la parola casa

e la parola grazie

pane radioso che sazi la nostra fame

coppe panciute da cui bere la bellezza

poesia a profusione

la parola cura

la parola amore.

 

Guarda com’è alto il cielo adesso

guarda come pascola il bianco delle nuvole

con la pioggia ora si fa dono

lucida la foglia già pronta per il sole

 

non c’è fine a questo compimento

tutte le cose sono saranno sono state

come questo mattino che già canta nelle gole

come questo mattino che da secoli srotola le ore

(Rita Greco da “La gioia delle incompiute”)

 

Di nuovo la violetta s’inclina verso il giglio. 

Di nuovo la rosa si spoglia delle sue vesti.

Il verde è venuto dall’altro mondo,

ebbro di vento, 

come rinfrescato da nuova leggerezza.

Di nuovo, vicino alla cima della montagna 

appaiono dolci i lineamenti dell’anemone.

Il giacinto parla cerimoniosamente con il gelsomino.

La pace sia con te. 

E pace a te, giovinetto. 

Vieni cammina con me sul prato.

L’amico è qui, come acqua nella corrente, 

come loto sull’acqua.

L’usignolo viene chiedendo: 

dove, dov’è l’amico? 

Con una nota l’usignolo indica la rosa.

Molte cose devono esser lasciate non dette,

ma qualunque conversazione 

non abbiamo avuto questa notte, l’avremo domani. 

 (Gialal al-Din Rumi)

 

Imma LUCCARELLI

 

Lo senti

Lo senti

il vuoto

che vacilla.

Disorientata,

persa

in uno sciame

di pensieri

e di ricordi,

trema l’anima

di paura.

Luminose,

sottili vetrate

rifrangenti di vita,

eppure vibriamo,

temiamo,

aggrappandoci

a nient’altro che

alla nostra fragilità,

quando improvvisa

si alza la bufera.

Quando fragoroso

urla il temporale.

(Imma Luccarelli, Inedita)

 

Ho sceso

Ho sceso, dandoti il ​​braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

 

Ho sceso milioni di scale dandoti il ​​braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

(Eugenio Montale da “Satura”)

 

Sandro MARANO

 

Per il sentiero dove cresce la dorata ginestra

 

Per il sentiero dove cresce la dorata ginestra

e cantano all’ultimo bagliore le cicale

cammino sfogliando il quaderno del tempo.

E sono ancora – non so bene perché –

il ragazzo invaghito della risacca

con la sua magia

e del sorriso della passante incrociata

per strada, misterioso e seducente.

L’abbazia è silenzio profondo,

la sua parola risuona in fondo al cuore.

Indugia sopra gli ulivi una falce di luna

e sono giganti buoni, tenui ombre lucenti,

gli ulivi, non fanno domande

e mi prendono dolcemente per mano.

(Sandro Marano, Inedita)

 

La pioggia

Bruscamente la sera s’è schiarita

perché cade la pioggia minuziosa.

Cade o cadde. La pioggia è qualche cosa

che senza dubbio avviene nel passato.

 

Chi l’ascolta cadere ha ritrovato

Il tempo in cui la sorte fortunata

Gli svelò un fiore chiamato rosa

e il bizzarro colore del granato.

 

Questa pioggia che adesso acceca i vetri

rallegrerà nei perduti sobborghi

le nere uve d’una vite in un

 

cortile dileguato. La stillante

sera mi porta la voce sognata

di mio padre che torna e non è morto.

(Jorge Luis Borges da L’artefice)

 

Gianpaolo G. MASTROPASQUA

CORIFEO: Benché fosse antico di giovinezza

                                                                                   futuro e fiamma fino all’omega

                                                                                     vagava tra le rovine della pazzia

rianimando amori, baciando rivoluzioni.

Dei confini imperiali

Nel confine di sputo dove in gergo nacqui

dove le murge s’inchinano per non urtare il cielo

dopo le curve mortali e la piana dei martelli

dove i contadini prestano le mogli a ore

o virtuose giovenche della casa del seme

nuvole di femmine al pascolo perenne

o chiaramente vacche marchiate dalla luna

in preda agli ultimi boschi agli ultimi predatori

predati nelle grotte dove nacquero i briganti

dove il padre di mio padre dormiva nel suo grano

perché la bestia sapeva le strade a memoria

le sentinelle per la pelle spedite in caserma

perché l’uomo rincasava per sfamare il paese

perché la guerra fosse meno amara tra i denti

e io fiaba furente di una stirpe terrigna

di eroi plasmati dalle povere battaglie

non rinnego il planetario sul dorso dormiente

né il sangue che solo per difenderlo ho versato

nelle strade dove crebbi e appresi la lotta

le malenotti mosse nelle macchine manomesse

i passaggi nel buio dell’ adolescenza furia

la pistola alla tempia che spaventai a morte

con la calma terrificante e inumana dell’iride

e fratello dei lupi dei rapaci dei rovi

disinnesco le trappole dei mercanti del verbo

sono questa terra sommersa e introvabile.

(Gianpaolo G. Mastropasqua da Viaggio salvatico)

 

Primi Incontri

 

Ogni istante dei nostri incontri

lo festeggiavamo come un’epifania,

soli a questo mondo. Tu eri

più ardita e lieve di un’ala di uccello,

scendevi come una vertigine

saltando gli scalini, e mi conducevi

oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti

al di là dello specchio.

Quando giunse la notte mi fu fatta

la grazia, le porte dell’iconostasi

furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva

e lenta si chinava la nudità

nel destarmi: “Tu sia benedetta”,

dissi, conscio di quanto irriverente fosse

la mia benedizione: tu dormivi,

e il lillà si tendeva dal tavolo

a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,

e sfiorate dall’azzurro le palpebre

stavano quiete, e la mano era calda.

 

Nel cristallo pulsavano i fiumi,

fumigavano i monti, rilucevano i mari,

mentre assopita sul trono

tenevi in mano la sfera di cristallo,

e ” Dio mio! ” tu eri mia.

 

Ti destasti e cangiasti

il vocabolario quotidiano degli umani,

e i discorsi s’empirono veramente

di senso, e la parola tua svelò

il proprio nuovo significato: zar.

 

Alla luce tutto si trasfigurò, perfino

gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,

come a guardia, stava tra noi

l’acqua ghiacciata, a strati.

 

Fummo condotti chissà dove.

Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,

città sorte per incantesimo,

la menta si stendeva da sé sotto i piedi,

e gli uccelli c’erano compagni di strada,

e i pesci risalivano il fiume,

e il cielo si schiudeva al nostro sguardo”

 

Quando il destino ci seguiva passo a passo,

come un pazzo con il rasoio in mano.

(Sergei Tarkovskij da Poesie scelte, Milano 1989)

 

Aldo PERRONE

 

Rosa di maggio

“L’appartamento ha ovviamente le cantine

ma io ci sto comoda, trovarle a getto di mano;

e sul piano più basso mi va bene,

qui accanto ho il giardino”.

 

Rosa di maggio, nel giardino

fresco di nuovi arrivi, per la primavera

sono nate le rose rosse

dallo stelo portato “dai ragazzi”;

rosa di maggio

“mi sopravviveranno?”, una risata manda

di buon umore chi la sa lontana, la morte.

 

Rosa di maggio, rigogliosa, alta,

colore denso come il rosso di sangue,

una di quelle che carezzavi tanto,

rosa di sangue

tra le tue mani bianche

per dormire per sempre. Non ci sarà roseto

col suo denso colore

che non sarà dolore.

Aspetterò per te

ogni rosa di maggio.

(Aldo Perrone da Uno strappo al silenzio)

 

Tutti la credono donna

Tutti la credono donna

E donna può essere:

L’odore, il portamento

L’andamento di volo

Che assume

Sollevando appena il tallone.

Quanti occhi per guardare!

E quante voci

Nella bocca sveglia:

Un ponte a Venezia

O altra cosa improvvisa

Mattiniera e gremita.

 

Tutti la credono donna.

Talvolta anche lei lo crede

E cede perché mi piace

Che tale sia.

Non soltanto mia

 

Ma pure di altri animali

Bisognosi, dolenti:

Il corvetto di nove giorni

Caduto dal campanile di Auxerre;

L’asino Geremia

Che brucia, che brucia

Sulla piana di Battipaglia.

 

Tutti la credono donna.

E tale può apparire

Sul filo d’acqua

Quando si specchia

O semplicemente cammina

Svogliata e temeraria.

Le città che attraversiamo

Non hanno numeri per le sue mani

Né numeri per i suoi piedi.

Con la mia pelle

Giorno e notte m’industrio

A fare guanti e pianelle.

(Raffaele Carrieri da Ill cigno lanciere)

 

Marina PIZZI

(Legge Barbara Gortan)

 

Dovrò

Dovrò ammattire con il sangue in gola

Terra italica senza fingerla…

Opuscolo di gestapo sopra il petto

Terribile pazienza essere io.

Manifesto tombarolo il silenzio

Cristallo innamorato il mio fraseggio

Giraffa di una luna che si prende.

Gesticola la madre per farsi voler bene,

Ormai ignoro le vestigia di chi fu

Malanno della rosa che non mi volle.

(Marina Pizzi da “Infernetti per un apolide”)

 

Tutto il mondo è vedovo

Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è
vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
è
mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.

(Amelia Rosselli da “Variazioni belliche”).

 

 

Pietro SANTAGADA

 

Buenos Aires è lontana                                   

I rumori dei chiodi conficcati

a serrare le assi delle finestre

facevano volare via i colombi.

La casa di pietra

era abbandonata (così) all’incanto del tempo.

Erano partiti tutti con le lacrime nelle tasche

e la testa alta.

Le valigie di cartone piene di speranza,

il destino affidato al santino cucito

della Vergine SS. Del Rosario e i sogni

erano legati con lo spago.

Le foto dei propri cari nei portafogli e nelle borsette

pronte a mostrarle al primo sconosciuto.

Nel cammino il cielo era caduto nel palmo delle loro mani

e i volti riflessi erano stelle.

(Pietro Santagada da Mappa S)

 

 

Emigranti                                                                 

Camminate leggeri su strade diritte

che non portano da nessuna parte

noi ci sorridiamo come freschi innamorati

mi guardavano pensose le case e i giardini

non lasciano alcuna impronta su di voi

sgusciate come nubi sopra torri e monti

i vostri piedi senza radici non si feriscono

da grande distanza guardate i vostri dolori

senz’anima scaturiti da voi

il domani ormai alle vostre spalle le nostre mille speranze

annuiscono in lacrime abbracciamoci veloci

dalle vostre labbra immobili sale il fumo

così triste delle canzoni morte

frusciano bianchi gli alberi sul ciglio della strada e

voi salutate con mani prive di luce

finché vi sciogliete nella corsa di un treno mattutino

frastornati dallo sferragliare delle ruote

(Agota Kristof da “Chiodi”)

 

Carla SARACINO

 Il tempo declina e la spiaggia nasce sulla pagina.
Vedo le dune approssimarsi al dito che sfoglia.
La pianta del ginepro
accasciata alla riva pungola il suono.
Non si tratta di una casa o dell’estate che affolla i pensieri.
Si tratta di una pena e del suo impossibile.
Del vedere prima di patire.
Si tratta dell’irredimibile.

(Carla Saracino, da Quest’ora dell’estate)

 

Tengo in mano un fiore, forse.
Strano.
Sembra che nella mia vita
sia passato un giardino, una volta.

Nell’altra mano
tengo un sasso.
Con grazia e fierezza.
Nessun sospetto
che mi si avverta di mutamenti,
che stia saggiando difese.
Sembra che nella mia vita
sia passata l’ignoranza, una volta.

Sorrido.
La curva del sorriso,
il cavo di questa inclinazione,
assomiglia a un arco ben teso,
pronto.
Sembra che nella mia vita
sia passato un bersaglio, una volta.
E l’inclinazione alla vittoria.

Lo sguardo immerso
nel peccato originale:
assaggia il frutto
proibito dell’attesa.
Sembra che nella mia vita
sia passata la fede, una volta.

La mia ombra, solo un gioco del sole.
Indossa una divisa d’esitazione.
Non ha ancora fatto in tempo a essere
mia compagna o mia delatrice.
Sembra che nella mia vita
sia passata l’abbondanza, una volta.

Tu non appari.
Ma se c’è una forra nel paesaggio
se mi sono fermata sul suo bordo
tenendo un fiore in mano
e sorridendo,
significa che fra un po’ verrai.
Sembra che nella mia vita
sia passata la vita, una volta.

(Kikí Dimulà da L’adolescenza dell’oblio)

 

Alfredo TRAVERSA legge stralci della “Poesia in forma di rosa” di P. P. Pasolini.

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