La scomposizione poetica in L’allegria

di Sandro Marano

 

«Questo è l’Isonzo

E qui meglio  

Mi sono riconosciuto  

Una docile fibra

Dell’universo  

Il mio supplizio  

È quando 

Non mi credo  

In armonia»

 

Questi versi di Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970) sono tratti da I fiumi, una delle poesie (datata 16 agosto 1916) più celebri e più significative de L’allegria.

È nota la vicenda editoriale di questo libro che ha profondamente rivoluzionato la poesia italiana del ‘900 e che fu pubblicato con diversi titoli, aggiunte e sistemazioni per ben quattro volte tra il 1916 e il 1932. La prima raccolta col titolo Il porto sepolto, pubblicata in ottanta copie nel 1916 a cura di Ettore Serra, comprendeva una trentina di poesie e andò poi a costituire il nucleo centrale e una delle cinque sezioni dell’Allegria. Seguì una più ampia raccolta nel 1919 col titolo Allegria di naufragi, per riprendere poi l’originario titolo Il porto sepolto nell’edizione del 1923 che si fregiò di una breve nota introduttiva di Benito Mussolini, che aveva conosciuto il poeta sul fronte del Carso e che nel cogliere il carattere diaristico della raccolta ne aveva messo in rilievo il suo valore di «testimonianza profonda della poesia fatta di sensibilità, di tormento, di passione e di mistero». Successivamente la raccolta prese il nome che le rimase di L’allegria fino all’edizione definitiva del 1942, che abbraccia tutte le settantaquattro poesie scritte tra il 1914 e il 1919.

Fin da subito la critica più autorevole colse il carattere profondamente innovatore della poesia di Ungaretti.

«Strumento fondamentale di questa rivoluzione è la metrica dell’Allegria: che disgrega il verso tradizionale in versicoli, frantumando il discorso in una serie di monadi verbali sillabate […] ne viene dilatata la forza evocativa e impressiva del singolo vocabolo […] coinvolgendo nella significazione, ben più profondamente che nella poesia tradizionale, pause di silenzio e spazi bianchi» (Pier Vincenzo Mengaldo).

L’allegria si struttura come un diario in cui la vicenda della guerra, cui Ungaretti partecipò da volontario, ha un posto centrale. Tutti conosciamo Sono una creatura, San Martino del Carso, Veglia, Fratelli, Sereno, Soldati, Natale (che è forse la più bella e più vera poesia sul Natale). Ma non meno belle e importanti sono le poesie che ricordano il suo soggiorno parigino o la giovinezza passata ad Alessandria d’Egitto. Così la prima poesia de Il porto sepolto è dedicato all’amico arabo Moammed Sceab, morto suicida a Parigi, che si conclude così:

 

«Riposa  

nel camposanto d’Ivry  

sobborgo che pare  

sempre  

in una giornata  

di una  

decomposta fiera  

E forse io solo  

so ancora  

che visse».

 

Lo stesso titolo Il porto sepolto, che allude al leggendario e antico porto di Alessandria che si diceva nascosto dalla sabbia, diventa per Ungaretti allegoria della poesia:

 

«Vi arriva il poeta  

e poi torna alla luce con i suoi canti».

 

In Commiato, la poesia che chiude la sezione de Il porto sepolto dedicata a Ettore Serra, scriverà:

 

«poesia  

è

il mondo l’umanità  

la propria vita

fioriti dalla parola  

la limpida meraviglia

di un delirante fermento».

 

La poesia I fiumi ha senza dubbio un posto centrale nella raccolta, perché ne raccoglie tutti i motivi, dal senso panteistico del divino (quel riconoscersi «una docile fibra dell’universo») al valore storico e personale delle radici:

 

«Questo è il Serchio  

Al quale hanno attinto  

Duemil’anni forse  

Di gente mia campagnola  

E mio padre e mia madre  

 

Questo è il Nilo  

Che mi ha visto  

Nascere e crescere  

E ardere d’inconsapevolezza  

Nelle distese pianure  

 

Questa è la Senna

E in quel suo torbido  

Mi sono rimescolato  

E mi sono conosciuto».

 

Il poeta rievoca sull’Isonzo tutto il suo passato rappresentato dai fiumi (il Serchio, il Nilo, la Senna) dove ha vissuto e solo così può ritrovare sé stesso di fronte al buio che riserva l’avvenire:

 

«Questa è la mia nostalgia

Che in ognuno

Mi traspare

Ora ch’è notte

Che la mia vita mi pare  

Una corolla  

Di tenebre».

 

La memoria, come insegnava il filosofo francese Henri Bergson (di cui Ungaretti seguì alla Sorbona alcune lezioni), non è un cassetto dove riporre i ricordi, ma è «il fondo stesso della nostra esistenza cosciente», è «il processo continuo del passato che rosicchia l’avvenire». Ed è «col nostro passato tutto intero [che] desideriamo, vogliamo, agiamo». «Che cosa siamo, infatti, che cos’è il nostro carattere, se non il condensato della storia che abbiamo vissuto dalla nostra nascita in poi, anzi, prima ancora della nostra nascita, dato che portiamo con noi disposizioni prenatali?» (L’evoluzione creatrice).

Senza memoria non c’è identità.

Dopo L’allegria verrà Sentimento del tempo (1933), che segnerà una rottura nella poetica e nel lessico rispetto alla precedente produzione poetica di Ungaretti, dando il via, insieme a Quasimodo e a Gatto, alla stagione dell’ermetismo.

 

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