I giardini della memoria di Agim Mato

di Maria Pia Latorre

 

Si fa avanti la Poesia, nella ressa. Incede lenta e sicura, non dimessa né intimorita dal fragore lì accanto. Incede silenziosa, nei mocassini consunti e affaticati di un enigmatico settantaduenne non corroso dalla fretta né preoccupato di sé. Si fa avanti, ignara, mentre si aprono varchi al suo passaggio e gli sguardi si fanno interrogativi. Poi tutto si scioglie in canto, le parole e i silenzi fusi in arte suprema.

Eccolo lì, seduto, Agim Mato, monumento vivente alla poesia, mentre un’aura di mistico sentimento aleggia da ogni parte della sua esile figura. Si fa calore intorno e gesti di amicizia, poi la poesia inizia il suo volo con i Giardini della memoria.

Ma quanto ha dovuto attendere in catene la sua poesia?

Silenziata dal lungo regime totalitarista stalinista di Enver Hoxha, essa ha radicato il suo messaggio nel terreno dell’opposizione clandestina, come una pianta che ancor prima di germogliare si è preparata alla vita costruendosi un articolato  intreccio di radici.

Così le parole, come un mosto fermentato e imbottigliato, sono maturate nei trent’anni di silenzio imposto dalla dittatura. Parole perfezionate nell’oblio, piene come melegrane spaccate, forti come vino da lungo invecchiamento che finalmente può sprigionare il suo armonioso bouquet. Parole intrise di silenzio e linfa vitale.

Qui davvero il poeta svolge appieno la sua missione di interprete della memoria, arriva a farsi inanimato e ispirato diaframma tra la realtà, la sofferenza e la poesia. Non si cura di sé, missionario della verità, sempre attento e vigile a registrare gli avvenimenti – i soli – le lune, a misurare le rughe sui volti della sua gente, a contare i vivi – i morti – gli arresi. Il poeta canta senza suoni, coi silenzi lunghi di millenni che si fanno vento tra le forre e “rombo di un fiume che versava il tempo nel mare”; canta senza colori, perché tra la parola e la luce cade l’ombra e l’uomo la abita e attraverso essa assapora il gusto della luminosità e si fa interprete dell’universo.

È una poesia d’acqua quella di Mato, che ad ogni indicibile stato d’animo corre alle rive dello Ionio a raccontare e raccontarsi – trentaquattro poesie delle settanta che ne compongono la raccolta ne citano un aspetto – e, laddove l’acqua non è esplicitata, scorre nelle vene come sangue, né serve elicerne la potenza tanto essa è onnipresente. Vien da pensare che, per il Nostro, il mare è ‘per raccontare la vita’, si sostanzia di ciò che le onde, propaggini-dita artigliate, grattano dalla terra e ricreano nel proprio ventre. L’acqua diviene così archetipo generatrice di dolore e rigenerazione. Per Mato il mare è madre-padre-zio-amico-amante-umanità.

Il poeta canta silenziosamente-ininterrottamente attraverso ciò che gli accade intorno; prende oggetti-vissuti-sentimenti e li rimpasta con  mezzi linguistici sapienti, spesso si rivolge all’uso di figure retoriche di significato non per creare delle semplici costruzioni bensì delle cattedrali.

Agim Mato è un acrobata della metafora, un equilibrista della personificazione, un cantore della proporzione poetica, il che gli viene da una robusta esperienza di letteratura classica coniugata ad una straordinaria sensibilità narrativa. Nei Giardini della memoria spesso ci imbattiamo in fusioni e dialoghi tra uomini e cose, tra uomini e natura.

Nella lirica Quali viaggi ignoti si preparano alle navi? Leggiamo: “questa tristezza di vetro”, “ho bevuto quest’azzurra luce”, sinestesie; “l’erba riveste la carne della terra gelata”, personificazioni; “il mio essere è percorso dai voli degli uccelli, come un allarme cosmico”, rocambolesca costruzione che spazia tra similitudini e metafore; “sono figlie delle rive verdi”, “dal sorriso degli aranci,/dai tronchi pensosi degli ulivi”, “i gemiti del mare,/le meditazioni degli olivi”, personificazioni che si agganciano l’una all’altra come gotici archi rampanti; figure di suono che sorreggono guglie e pinnacoli, fino alla domanda-cuore della lirica: “Che segreti navigano nell’aria insieme al polline dei fiori?” e alla sua ineluttabile risposta: “Nel mio cuore si addensano le nebbie di un inquieto bianco”.

Si è detto che i Giardini della memoria sono un manifesto di liberazione e di libertà, la più alta espressione di un poeta impegnato che sa dosare le emozioni e tenere ben in equilibrio temi sociali e politici, che sa ironizzare su di sé, discendendo, dopo trent’anni nella “miniera abbandonata della poesia”, per tornare, guardingo e consapevole delle “sofferenze nelle solitarie notti”, alle “frottole poetiche”, ma circondato da “uno stormo d’ali di desideri e di sogni di un tempo”.

Quanta decantazione abbisogna al verso perché raggiunga sì alte vette? Il Poeta in uno slancio meta-riflessivo si e ci porge un’incontrovertibile risposta: ”ci volle tempo per convincermi/ che dovevo frenare l’impeto dei motivi e delle verità/per salvare quei dati motivi, quelle verità/ che ora contiene questo libro./ Quei trucioli fini, gialli, quali polverine di farmacia erano/ la dose che prendevo regolarmente/ per calmare la febbre dell’ispirazione”. Un equilibrio poetico, dunque, che deve prendere le distanze sia dai disastri politici che dalla sua stessa ispirazione, combattuta, giorno per giorno come una terribile malattia, alla quale solo un personalissimo farmaco ha potuto recare sollievo, una commistione di coscienza e autocoscienza, di sentimenti e autocensura, di pensieri e tempo dilatato, col preciso scopo di raggiungere la vetta della poesia che, solo così, potrà cantare la giustizia. Una poesia che è riuscita a prendere le giuste distanze dalla politica: “noi stessi eravamo esseri cresciuti nelle assurde vasche di una dottrina”, che ha trasfigurato la rabbia verso le ingiustizie subite: “Il bosco dei nervi/ guaiva,/ sotto i venti della rabbia”.

Ma il processo di decantazione serve anche a donare robustezza, così le immagini si fanno sempre più potenti e vivide, come ne L’anfora, dove è proprio il mare a porgere al Nostro un’ anfora per bere il tempo e donargli lucidità. Qui il linguaggio si fa deittico e a parlare è il mare stesso: “Dico che alla poesia io medesimo/ primo ho tagliato il cordone ombelicale,/ sulle mie rive i poeti/ urlarono forte per il male”; si avverte subito come questa costruzione, così immediata, giocata su un dialogo diretto col mare, raggiunga effetti di lacerazione, tra “meschini pesci” e di acuto dolore mai urlato ma sempre trattenuto da un’eleganza formale di rara bellezza. Attraverso questo faticoso e avvincente percorso di potatura poetica si realizza la catarsi, i versi assumono pienezza totale: “Non dicevamo parola./ La lucciola di un leggero bacio/ c’illuminò i visi”. Cosa di più struggente e perfetto per descrivere un bacio?

Altro pilastro della poesia del pluripremiato Maestro è il ricorso al mito e alla sua funzione di ancoraggio, di mediazione e trasfigurazione della realtà, basti citare Afrodite, dove è proprio la dea a prestare nome e volto ad una sconosciuta, ricordo di una estate giovanile, poi ritrovata cadavere da alcuni pescatori o in Episodio, dove si scrive di “bombe rosse insieme ai rossi fiori” e, attraverso un forte contrasto oggettuale, si rievoca una morte trasfigurata in immagine poetica personificata e sinestetica: “Mi separai piangendo da un compagno/ perché il mazzo, quando lo odorò,/ gli fece una magia,/ il mazzo rosso urlò così forte/ che il mare di fronte tremò tutto”.

 

Foto in memoria di una voce autentica: Agim Mato con Cosimo Rodia

Lascia un commento