L’atmosfera di Bergman in Carri d’autunno di Alfonso Gatto

di Italo Spada

 

Di certo, Alfonso Gatto, quando scrisse Carri d’autunno (1932) non poteva conoscere Il settimo sigillo di Bergman. Ed è del tutto improbabile che Bergman, quando girò il film (1956), avesse letto la poesia di Gatto. Eppure…

Eppure c’è qualcosa che rimanda da un testo all’altro, con una stupefacente coincidenza di particolari. Si tratta, per essere precisi, di due scene che nel film sono collocate all’inizio e alla fine e che la poesia evoca, come vedremo, nei primi 6 versi e negli ultimi 5.

Cominciamo con il ricordare la trama de Il settimo sigillo.

Il cavaliere Antonius Block ha partecipato ad una crociata. È partito dalla sua terra e dal suo castello con grande entusiasmo, ma ne ritorna deluso. Con lui c’è pure il fido scudiero Jons. Il paese che hanno lasciato è ora infestato dalla peste e ovunque pesa il silenzio dei morti.  La Morte, che da tempo cammina al fianco dei due, accetta una strana sfida a scacchi lanciatale dal cavaliere. Block sa bene che perderà la partita, ma la sua reale intenzione è quella di distrarre la Morte per guadagnare ancora un po’ di tempo, raggiungere il suo castello e trovare risposte ai dubbi di fede che si trascina da tempo. Tra la gente che incontra – un pittore cinico, un ex teologo diventato ladro, una ragazza rimasta sola, una processione di flagellanti,  un fabbro tradito dalla moglie, la moglie del fabbro e il suo amante, una ragazza accusata di stregoneria, soldati e monaci che eseguono condanne al rogo – il cavaliere si affeziona a una famigliola di attori girovaghi e, per dare un senso alla sua inutile vita, compie l’ultimo gesto di generosità, distraendo la Morte e salvando dalle sue grinfie il mite e visionario Jof, sua moglie Mia e il loro figlioletto Mikael.

L’atmosfera che si respira in Carri d’autunno di Alfonso Gatto – la cui “situazione realistica di partenza potrebbe essere la contemplazione o forse il ricordo di un paesaggio autunnale-invernale illuminato da una luce lunare che rende tutto quasi fiabesco: una piana forse ricoperta dalla prima neve, una carovana di zingari che sosta per la notte, qualche lucerna che cigola, nessuna visibile presenza umana, un silenzio che evoca i morti”[1] – richiama alcune scene del film di Bergman.

Lo spazio lunare dove pesa il silenzio dei morti è quello di un paese dove è possibile imbattersi in cadaveri “eloquenti”. Il termine “zingari” può anche essere inteso in senso largo: nomadi che, non avendo fissa dimora, vanno in giro  su carri eternamente remoti. Esattamente come gli attori girovaghi del Medio Evo che, pur spostandosi di villaggio in villaggio, sognavano di trovare luoghi beati. E lo trovano, all’alba, dopo una notte di tempesta, durante la quale si sono stretti l’uno all’altro come gli uccellini. Un posto che non è più verde (fu d’erba una pianura), ma che non è più neanche lugubre.

 

Carri d’autunno                                              Il settimo sigillo

 

 

 

Nello spazio lunare

pesa il silenzio dei morti.

Ai carri eternamente remoti

il cigolio dei lumi

improvvisa perduti e beati

villaggi di sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come un tepore troveranno l’alba

gli zingari di neve,

come un tepore sotto l’ala i nidi.

 

Così lontano a trasparire

il mondo ricorda che fu d’erba, una pianura.

 
 

 

 

“Poco lontano un cane scheletrico mugola strisciando verso il suo padrone, che dorme seduto sotto il sole rovente. Intorno alla testa e alle spalle gli ronza una nube di mosche. Il misero cane guaisce senza posa, strisciando sulla pancia e dimenando la coda. Jons smonta e si avvicina all’uomo addormentato. Gli rivolge cortesemente la parola. Poiché non riceve risposta, gli si avvicina per scuoterlo e svegliarlo. Si china sull’uomo addormentato, fa per mettergli una mano sulla spalla, ma la ritrae in fretta. L’uomo guarda  Jons con le vuote occhiaie e i denti scoperti. Lo scudiero rimonta a cavallo e raggiunge il padrone. Beve un sorso del suo otre, quindi lo porge al cavaliere.

Cavaliere: Dunque, ti ha indicato la strada?

Jons: Non esattamente.

Cavaliere: Che cosa ha detto?

Jons: Niente.

Cavaliere: Era muto?

Jons: No, signore, non direi. Anzi, in realtà, era molto eloquente.

Cavaliere: Ah, sì?

Jons: Era eloquente, eccome! Il guaio era che ciò che aveva da dire era molto deprimente.[2]

 

 

 

 

 

 

Jof e Mia sono distesi, stringendosi l’uno all’altro, e ascoltano la pioggia tamburellante leggermente sulla tenda del carrozzone, il rumore diminuisce a poco a poco e infine vi è solo più qualche goccia isolata. I due si trascinano fuori dal loro riparo. Il carrozzone è fermo su un’altura, in cima a un pendio, protetto da un enorme albero. Al di là delle colline e le foreste si scorgono ampie pianure, e il mare, che riluce ai raggi solari che spuntano attraverso le nubi. [3]

 
 

[1] Salvatore Guglielmino, Hermann Grosser, Il sistema letterario, Principato, Milano 2002, pag. 107

[2] Ingmar Bergman, Quattro film, Einaudi, Torino 1964, pagg. 96-97

[3] Id., pag. 153

 

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