Una sequenza di Schindler’s List in A Liuba che parte

di Italo Spada

 

Nel 1938, quando il regime fascista seguì l’esempio di quello nazista ed emanò le leggi razziali che escludevano gli ebrei dalla vita pubblica, Eugenio Montale scrisse A Liuba che parte.

La poesia confluirà, in seguito, nella raccolta “Le occasioni” e l’autore rivelerà su di essa alcuni particolari interessanti.

Si sapranno, soprattutto, due cose.

Prima di tutto che questo è il “finale di una poesia non scritta”. Come dire che abbiamo davanti uno spezzone di poesia, una sequenza che l’autore intendeva inserire in un testo più ampio e che, per mancanza di tempo o per qualche altro motivo a noi sconosciuto, non è riuscito a completare. Questa notizia, appresa grazie a una dichiarazione dello stesso Montale, fa di “A Liuba” una sorta di opera incompiuta, ammantata del fascino dell’incognito. Se si potesse fare un paragone con la scultura, si potrebbe pensare ai quattro “Prigioni”  iniziati da Michelangelo per la sepoltura di Giulio II e mai completati, “corpi giganteschi che sembrano inutilmente dibattersi contro un’angosciosa oppressione materializzata dalla pietra che ancora li rinserra”[1] e che suscitano in chi li guarda la malinconia di tutte le opere interrotte, di tutti i personaggi in cerca d’autore.

La seconda interessante notizia completa tristemente la prima, perché riguarda Liuba, personaggio realmente esistito. Insomma, la poesia – proprio come si legge in alcuni film – “è tratta da una storia vera”, e questo non può fare altro che aumentare la nostra partecipazione emotiva.

Liuba si chiamava, in realtà, Liuba Blumenthal ed era figlia di ebrei. Montale la “inquadra” nel momento in cui sta cercando di lasciare Firenze per sfuggire alle persecuzioni razziali. C’è un fuggi fuggi generale e tutti cercano di mettersi in salvo trascinandosi dietro i familiari e qualche oggetto indispensabile. I bambini, come sappiamo, non danno alle cose lo stesso valore degli adulti e, più che i soldi o il pane,  reputano indispensabile un giocattolo, un ninnolo, un animale domestico. Nel museo di Auschwitz sono esposti occhiali, scarpe, pettini, valigie, capelli, scatole, spazzole, e molti altri oggetti tolti ai legittimi proprietari finiti nelle camere a gas. In una vetrina a parte, c’è una bambola decapitata. Vedendola, non si può fare a meno di pensare alla bambina che se l’è portata dietro (una coetanea di Liuba) e a tutto il suo dolore nel vedersela strappare via.

Un altro accostamento, questa volta filmico, nasce spontaneo.

In una delle più drammatiche scene di Schindler’s List, Steven Spielberg  rappresenta l’orrore dell’Olocausto con un’inquadratura dall’alto nella quale si vede una massa di ebrei nel ghetto di Cracovia che fugge in preda al panico. In mezzo alla folla, sola e terrorizzata, c’è una bambina che, ad certo punto, riesce a sfuggire al controllo spietato delle SS, entra in un palazzo abbandonato e si nasconde sotto un letto. Il film (ad eccezione della cornice che apre e chiude la storia) è girato in bianco e nero, ma quella bambina ha il cappottino rosso, come se il regista avesse voluto sottolineare con quella scelta tecnica un messaggio contenutistico: attirare l’attenzione degli spettatori sull’atrocità del massacro che non ha risparmiato nemmeno i bambini.

Ebbene: la “bambina filmica” di Spielberg, come la “bambina storica” di Auschwitz, sono già nella “bambina poetica” di Montale.

La famiglia Blumenthal è dispersa e la piccola Liuba, rimasta sola al mondo,  vaga per le strade di Firenze, portandosi dietro tutta la sua ricchezza. È una di quelle gabbiette che si vendono al parco delle cascine durante la “Festa del Grillo”. Dentro la gabbietta, però, Liuba non ha il grillo di Pinocchio, quello della saggezza che i padri comprano per i loro figli e che in un periodo storico di follia generale si sarà rintanato chissà dove, ma un gattino, definito dal poeta splendido lare del focolare. I versi 5-8 completano la sequenza evocando immagini bibliche: Liuba porta il suo gattino come Noè portava i suoi animali nell’arca. Nonostante la sua leggerezza, la gabbia-arca galleggia nel mare in tempesta e dà a chi guarda un barlume di speranza.

Sarà, purtroppo, una speranza vuota, perché se i versi che Montale scrive sono solo il finale di una poesia non scritta, il volto di Liuba e il particolare del gattino dentro la gabbia sono le due sole inquadrature di un film non realizzato, l’inizio di una vita spezzata sul nascere.

 

A Liuba che parte

 

Non il grillo ma il gatto

del focolare

or ti consiglia, splendido

lare della dispersa tua famiglia.

La casa che tu rechi

con te ravvolta, gabbia o cappelliera?,

sovrasta i ciechi tempi come il flutto

arca leggera – e basta al tuo riscatto.

 
 

Particolare

 

 

 

P. P. di Liuba

 

Montaggio delle attrazioni

 

 
[1] (Cfr. “L’Universale, Arte”, Garzanti, Milano 2003, voce “Michelangelo”)

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