Intervistiamo: Piefranco Bruni

di Cosimo Rodia

 

Pierfranco Bruni, poeta, romanziere, animatore culturale, politico e tant’altro ancora.

Restringendo il campo sulla sua attività poetica, le chiedo: perché continuare a scrivere poesia, se tra i libri venduti quelli poetici sono lo 0,6 %?

R. Perché crede che il poeta scrive e pubblica per vendere? Non credo se è un vero poeta. Il poeta non scrive per vendere. Scrive per sé stesso. Pubblica per allontanarsi da ciò che ha scritto. Il resto appartiene ai fruttivendoli che devono necessariamente vendere per non far marcire frutta e verdura.

 

Ha senso dedicare la vita alla letteratura?

R. Per me sì. Tutta la mia vita non avrebbe avuto il senso che ha avuto senza la letteratura. Ma anche la mia letteratura non avrebbe senso distante dalla vita che vivo e abito.

 

Ci dica quale sono le direttrici della sua produzione poetica e quali sono i suoi maestri?

R. Direttrici? Non so cosa siano come non so cosa siamo gli obiettivi per uno scrittore. Maestri tanti. Da Ulisse, che assomma tutti noi, a Ivan Karamazov, da Zaratustra a don Fabrizio del Gattopardo passando da Berto a Pavese a Grisi a Zambrano.

 

Per lei, qual è il rapporto tra poesia e prosa?

R. Ormai non esistono generi letterari. Giustissimo. Come diceva la maestosa filosofa Maria Zambrano (io da lei imparato moltissimo), soltanto la confessione è un genere letterario. L’antico viaggio da Paolo a Seneca ad Agostino.

 

Le antologie nazionali, ovvero quelle edite dalle grandi case editrici, inseriscono quasi tutti gli stessi poeti, ne consegue che a queste antologie e agli stessi poeti si rivolge la critica accademica.

Qual è il suo pensiero a riguardo?

R. Nessuno. Non mi interessano le antologie scolastiche o accademiche. La letteratura vera non sa cosa farsene di ciò. È questione soltanto di mercato. Comunque. La vera letteratura è nella linea Mediterranea: da Dante ad Ariosto, da Verga a Pirandello, da Deledda a D’Annunzio. Manzoni è uno storico che cerca di farsi scrittore. Un vecchio dilemma antropologico. È questione di case editrici e di politiche culturali gestite malissimo da sinistra destra e cattolici.

 

Come ritiene, allora, la poesia della cosiddetta “linea lombarda”?

R. Inesistente se si tratta di linea lombarda. Unica se si pensa alla linea milanese che annovera: Raffaele Carrieri – Quasimodo. Lasciamo perdere la Merini. Non è una poetessa. È sociologa del frammento.

 

Alla luce della pubblicistica che conta e della critica che alla prima si rifà, come spiega l’assenza dai radar della critica della poesia meridionale?

R. Bisogna considerare ciò che conta. In letteratura non è ciò che conta. È ciò che resta. Chi resta in una struttura ideologica? Il tradizionalismo alla Corrado Alvaro o alla Leonardo Sciascia.

 

Ci dica cos’è per lei la poesia? In particolare, è bene che essa sia narrativa, che parli con un linguaggio quotidiano, che dia conto di fatti minimi, che abbia un lessico non evocativo?

R. Io vivo la scrittura. Anzi cerco di abitarla al di là, come dicevo, dei generi. Non credo ai generi letterari. Ormai chi sa scrivere scrive intrecciando.

 

Dopo Leopardi, D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Quasimodo ci sono altri poeti riconosciuti, da essere un canone da moltiplicare nelle esperienze letterarie individuali?

R. Toglierei il termine “riconosciuti”. C’è tutta una letteratura a cominciare da Pavese che va oltre ma siamo sempre alla solita questione che è stata ideologica.

 

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