La mediterraneità di De Andrade

di Sandro Marano

             

«Ho parlato di tutto quel che ho amato.

Di cose che ti do

perché tu le ami insieme a me:

la gioventù, il vento e le sabbie.»

 

Sono gli ultimi versi della poesia A domani tratti dall’omonima raccolta del 1956 di Eugenio De Andrade (1923- 2005), una delle grandi voci della poesia portoghese del XX secolo. La sua biografia è priva di grandi avvenimenti: lavora per trentacinque anni nei servizi ispettivi del Ministero della Salute, rifiutando ogni avanzamento di carriera per dedicarsi con più libertà alla poesia e alla letteratura. La sua prima raccolta poetica è As Mãos e os frutos (Le mani e i frutti) del 1948, cui seguiranno una ventina di libri di poesia, due di prosa, un libro per l’infanzia, varie traduzioni.

Di carattere schivo, riservato, amante della classicità greca e della mediterraneità, Eugenio de Andrade tende ad una poesia che unisce al rigore formale la semplicità e l’immediatezza.

In una poesia di As Mãos e os frutos scrive:

 

«Non canto perché sogno.

Canto perché sei reale.

Canto il tuo sguardo maturo,

il tuo sorriso puro,

la tua grazia animale.

Canto perché sono uomo»

(Non canto perché sogno).  

 

E in una nota, parlando della sua poetica, De Andrade dichiara: «È contro l’assenza dell’uomo nell’uomo che la parola del poeta insorge. La sua ribellione è in nome di questa fedeltà. Fedeltà all’uomo e alla sua lucida speranza di esserlo interamente; fedeltà alla terra in cui immerge le radici più fonde». E di questa fedeltà all’uomo e alla terra in fondo il poeta ci parla in tutte le sue poesie, come in questa tratta da Materia solare del 1980 :

 

«Mi aggrada stare qui, parlare

di alberi, dirne

quel che dissi della neve in altra occasione.

Dalla finestra si avvista la torre

sopra le acque, quelle dell’infanzia

o della pazzia, non ce ne sono altre

così innocenti, e così prossime

al cuore della terra – dirne

quel che in altra occasione dissi della neve.»

(Mi aggrada stare qui, parlare)

 

Lo spirito mediterraneo è dovunque presente nei suoi versi. Spiegava Ortega y Gasset nel suo primo e celebre saggio filosofico pubblicato nel 1914, le Meditazioni del Chisciotte, che «il Mediterraneo è un’ardente e perpetua giustificazione della sensualità, dell’apparenza, delle superfici, delle impressioni fugaci che le cose lasciano nei nostri nervi commossi.»

E come spiega Federico Bertolazzi  nella postfazione all’antologia Dal mare o da altra stella le immagini poetiche di Eugenio de Andrade risplendono in particolare  «quando afferma la mediterraneità del suo mondo, non senza evocare le affascinanti origini elleniche della tradizione occidentale».

Così in questa poesia tratta da Rente a dizer del 1992:

 

«Sono arrivate tardi alla mia vita

le palme. A Marrakech ne vidi una

che Ulisse avrebbe comparato

a Nausicaa, ma solo

nel giardino del Passeio Alegre

ho cominciato ad amarle. Sono alte

come i marinai di Omero.

Davanti al mare sfidano i venti

venuti dall’est e dal sud,

dall’est e dall’ovest,

per piegarle alla cintura.

Invulnerabili – così nude». 

(Passeio Alegre).

 

E nella poesia Arianna, che fa parte della raccolta Oscuro dominio del 1971, di cui riportiamo alcuni versi, il richiamo al mito classico diventa un pretesto per parlare dell’amore presente con un raffinato gioco intellettuale:

 

«Ora parlerò degli occhi di Arianna.
Parlerò dei tuoi occhi, visto che di Arianna
forse si ha memoria
solo fra le gambe di Teseo.
Di Arianna o no, gli occhi sono azzurri.
azzurri di un azzurro molto fragile,
come se nel fare il colore un bambino
avesse calcolato male l’acqua.
[…]

Ora parlerò degli occhi greci di Arianna,
che non sono di Arianna, né sono greci,
di questi occhi che se fossero musica
sarebbero la musica di acqua degli oboi,
parlerò appena degli occhi del mio amore,
di questi occhi di un azzurro così azzurro
che sono proprio l’azzurro degli occhi di Arianna.»

 

«L’Eros occupa una parte importante nella sua opera, un Eros spontaneo e solare. […] Nella sua poesia il corpo, limpido ed apollineo, diventa quasi un’anima carnale: si cancella il dualismo caratteristico della nostra cultura cattolico-occidentale» (Vera Lùcia de Oliveira). E difatti non c’è alcuna distanza nel poeta portoghese tra corpo e anima, tra uomo e mondo, tra interno ed esterno.

Così nella lirica Sull’orlo del mare, tratta dalla raccolta A domani, la linea del viso amato si confonde col pensiero, col desiderio, col mare e col vento:

 

«Sull’orlo del mare,

nel rumore del vento,

dove è stata la linea

pura del tuo viso

o solo pensiero

(e abita, segreto,

intenso, solare,

tutto il mio desiderio)

lì coglierò

la rosa e la palma.

Dove la pietra è fiore,

dove il corpo è anima.» 

 

L’eros, la solare sensualità, la palpitante e tangibile bellezza dei corpi, il desiderio conturbante sono cantati da de Andrade con versi di grande suggestione. Ecco un esempio, pochi versi allusivi e struggenti:

 

«Mai l’estate aveva indugiato

così sulle labbra

e sull’acqua

come potevamo morire,

così vicini

e nudi e innocenti?»

(Eros, da Mar de Setembro del 1961).

 

E in quest’altra tratta da Ostinato rigore del 1964 si amalgamano giovinezza, tumulto dei sensi, silenzio:

 

«Ascolto il silenzio: in aprile

i giorni sono

fragili, impazienti e amari,

i passi

minuti dei tuoi sedici anni

si perdono per le strade, ritornano

con resti di sole pioggia

sulle scarpe,

invadono il mio dominio di sabbie

spente,

e tutto inizia ad essere uccello

o labbra, e vuole volare.

[…]

Un solo rumore di sangue

giovane:

sedici lune alte,

selvagge, innocenti e allegre,

ferocemente intenerite;

sedici puledri

bianchi sulla collina sopra le acque.

[…]

Un rumore di semi,

di capelli

o erbe appena tagliate,

un irreale albeggiare di galli

cresce con te,

nella mia notte di quattro muri,

sulla soglia della mia bocca,

dove indugi nel dirmi addio.

Ascolto un rumore: è solo silenzio»

(Ascolto il silenzio).  

 

Non possiamo terminare questa breve rassegna senza riportare la poesia dedicata alla madre, dove gli elementi naturali (la pioggia, gli ulivi) si legano inestricabilmente alla tenerezza del ricordo:

«La pioggia, ancora la pioggia sugli ulivi.
Non so perché sia tornata oggi pomeriggio
se mia madre se ne è già andata via,
non viene più sulla veranda a vederla cadere,
non alza più gli occhi dal cucito
per chiedere: Senti?
Sento, mamma, è ancora la pioggia,
la pioggia sopra il tuo viso.»

 

La poesia per il poeta portoghese è nemica del conformismo, delle morali, della disciplina di partito, della burocrazia:

 

«La poesia non va a messa,

non obbedisce alla campana della parrocchia,

preferisce aizzare i suoi cani

alle gambe di dio e degli esattori

delle tasse.

[…]

La poesia adora

camminare scalza sulle sabbie dell’estate»

(La poesia non va, da O sal da lingua del 1995).

 

La poesia in qualche modo allontana anche la morte. «La morte non esiste: / tutto è canto o fiamma», dice il poeta portoghese. E nei suoi versi vivono per sempre il corpo, la giovinezza, lo sguardo colmo di desiderio che precede l’atto d’amore.

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