Il fuoco nelle mani di Lorca

di Sandro Marano

 

«Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o gitana, mia stella!
Sotto l’ora solare del mezzogiorno
morderò la mela.
Fra i verdi ulivi della collina
c’è una torre moresca,
che ha il colore della tua carne campestre
che sa di miele e d’aurora.
Mi offri nel tuo corpo ardente
il divino nutrimento
che dà fiori al ruscello quieto
e stelle al vento.
Come ti sei concessa a me, luce bruna?
Perché colmi d’amore
 

mi hai offerto il tuo sesso di giglio
e il gioco sonoro dei tuoi seni?
Fu forse per il mio triste aspetto?»

 

Questi versi colmi di passione e di vibrante sensualità sono i versi iniziali di Madrigale d’estate, una delle tante splendide poesie del Libro de poemas, il primo libro di poesie pubblicato nel 1921 da Federico Garcia Lorca (1898 – 1936). A questo libro seguirono altri capolavori come il Romancero gitano (1928), il Poema del cante jondo (1931) e il Lamento per Ignacio Sanchez Mejias  (1935).

Sulla tragica fine del poeta si sono avanzate molte ipotesi. Com’è noto, mentre cominciava ad infuriare la guerra civile con i suoi odi di parte, i suoi bagni di sangue, i suoi regolamenti di conti, Lorca, al di là delle sue manifeste simpatie per la Repubblica, si era tenuto in disparte dalla politica. Era infatti riparato a Granada in casa di amici falangisti, i Rosales. Qui fu prelevato dalla polizia del comandante franchista Valdés il 16 agosto e fucilato tre giorni dopo. «Non sappiamo se quella fucilazione fu sacrificio, eroismo civile, o solo una concomitanza di causalità legate a cose ben più meschine, come antagonismi tra famiglie proprietarie terriere, lotta fra fazioni politiche sorte all’interno della stessa coalizione di destra, invidie, gelosie, livori locali, insomma cose da faida paesana, da regolamento di conti, in cui non era estranea la presunta omosessualità di Federico» (Augusto Benemeglio). In ogni caso si metteva a tacere un uomo, non la sua voce, non la sua poesia.

Parlare della poesia di Federico Garcia Lorca è parlare dell’Andalusia, di questa terra solare e malinconica insieme, «amorosa e mesta» come la pioggia che la bagna, dove si intrecciano la sua musica col ritmo del flamenco, l’avvenenza delle sue donne, l’eroismo del torero Ignacio Sanchez, l’amore per la vita insieme al senso di morte e di sconfitta che costantemente l’accompagnano, il «silenzio rotondo della notte sul pentagramma dell’infinito» (Ora di stelle). È parlare, in un certo senso, della Poesia tout court.

Ma che cos’è la poesia per Garcia Lorca?

In un’intervista apparsa su La voz del 7 aprile 1936 a cura di Felipe Morales il poeta affermava: «la poesia è qualcosa che va per le strade. Che si muove, che passa al nostro fianco. Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il mistero che contiene tutte le cose». Se i bambini gli chiedono: «Chi ti insegnò la strada dei poeti?», il poeta risponde: «La fonte e il ruscello della canzone antica» (La ballata della piazzetta). E in alcune dichiarazioni raccolte dall’amico Gerardo Bianco il poeta andaluso ribadiva: «ma cosa vuoi che ti dica della poesia? Cosa vuoi che dica di queste nubi, di questo cielo? Guardare, guardarle, guardarlo e nient’altro.  Capirai che un poeta non può dir nulla sulla poesia. Lasciamo dire pure ai critici e ai professori.  Ma né tu né io né alcun altro poeta sa cos’è la poesia. Sta qui, guarda. Ho il fuoco nelle mie mani» (in Poesia espaňola contemporanea).

Il poeta è colui che sa entrare in comunione con la natura vivente, con i suoi ritmi segreti, è colui che nei suoi versi mette a nudo l’anima musicale delle cose e attraverso di essa ci rende le nostre emozioni. Come nella magnifica Pioggia, di cui riportiamo la parte iniziale:

 

«La pioggia ha un vago segreto di tenerezza

una sonnolenza rassegnata e amabile,

una musica umile si sveglia con lei

che fa vibrare l’anima addormentata del paesaggio.

È un bacio azzurro che la Terra accoglie,

il mito primitivo che torna a realizzarsi.

Il contatto ormai freddo dei vecchi cielo e terra

con una pace da lunghe sere.

È l’aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori

e ci unge con lo spirito santo dei mari.

Quella che sparge la vita sui seminati

e nell’anima tristezza di ciò che non sappiamo.

La nostalgia terribile di una vita perduta,

il fatale sentimento di esser nati tardi,

o l’illusione inquieta di un domani impossibile

con l’inquietudine vicina del color della carne». 

 

Non è certo un caso che Lorca sapesse suonare la chitarra e il piano e che stringesse amicizia col grande musicista spagnolo Manuel De Falla. Se è vero che la musica è «la chiave di volta dell’ideale poetico di Lorca, che si apre dall’intimità per sciogliersi in discorso, in dialogo, in rappresentazione» (Claudio Rendina), la sua poesia non disdegna nemmeno di farsi teatro: inizialmente sotto forma di favola o di apologo come ne Gli incontri di una lumaca avventurosa o nella Ballata della piazzetta, poi con l’orazione lirica del Lamento per Ignacio Sanchez Mejias,  infine con testi propriamente teatrali come La casa di Bernarda Alba (1935).

Il sentimento tragico della vita, che il filosofo spagnolo Unamuno elevò a filosofia, circola nell’intera opera poetica di Lorca:

 

«Le due rane mendicanti

restano come sfingi.

Una domanda:

“Ci credi alla vita eterna?”

“Io no”, dice triste triste

la rana ferita e cieca.

“E perché, allora, abbiamo detto

alla lumaca che deve credere?”

“Perché … Non so perché”,

dice la rana cieca.

“Ho un groppo alla gola

quando sento con quanta fede

i miei figli invocano

Dio là nel canale…»

(Gli incontri di una lumaca avventurosa).

E nella splendida I gattici d’argento scrive:

 

«I gattici d’argento si piegano sull’acqua:

essi sanno tutto, ma non parleranno.

Il giglio della fonte non grida la sua tristezza.

Tutto è più degno dell’Umanità!

La scienza del silenzio di fronte al cielo stellato

solo il fiore e l’insetto la posseggono,

la scienza del canto per il canto la posseggono

i rumorosi boschi e le acque del mare.

Il silenzio profondo della vita in terra,

ce lo insegna la rosa aperta nel rosaio.

Bisogna spargere il profumo

che le nostre anime racchiudono!  […]

Bisogna esser come l’albero

che è sempre in preghiera, […]

Scomparirebbero città nel vento.

Vedremmo passare in una nube Dio.»

 

L’uomo non può cogliere la verità, può soltanto intravederla. Deve fare i conti col suo destino mortale e forse, come il pioppo solitario della poesia, avrebbe pure voglia di «dare con la sua mano centenaria un cazzotto alla luna» (Il concerto interrotto). Le sue parole non possono che restare «nell’aria come sugheri nell’acqua» (Sera).

L’uomo, osservava icasticamente il poeta, è un concerto interrotto.

Lascia un commento