Machado: Il poeta dell’amore e del dialogo

di Sandro Marano

 

«La piazza e gli aranci accesi

con i frutti rotondi e ridenti.

Un tumulto di piccoli scolari

che, uscendo in disordine da scuola,

empiono l’aria della piazza in ombra

con il clamore delle voci nuove.

Allegria infantile nei cantucci

delle città morte!

Qualcosa di noi, di ieri, vediamo

vagare ancora in queste vecchie strade»

 

Questa poesia è tratta da Soledades (Solitudini), la prima raccolta pubblicata nel 1903 (e poi con aggiunte e rimaneggiamenti nel 1907) da Antonio Machado (1875-1939). In questi versi così semplici e suadenti il poeta spagnolo fissa una volta per tutte il suo atteggiamento verso il mondo: una malinconica soggettività che cerca costantemente il dialogo con le cose. «Che cerchi poeta nel tramonto?» si domanda icasticamente in un’altra poesia mentre l’amarezza domina tutt’intorno il paesaggio e il proprio cammino.

Il giardino, la fontana, gli aranceti, la sera, la luna fanno da cornice alla sua meditazione poetica sui temi dell’amore, dell’infanzia perduta, della ricerca di un Dio «dentro la nebbia».

Con accenti che ricordano la successiva travolgente poesia di Garcia Lorca, Machado canta l’amore:

 

«Nei tuoi occhi ricordo

le notti dell’estate.

E la tua carne bruna,

i frumenti bruciati

e il sospiro di fuoco

dei campi maturi.  […]

Riempirò la mia coppa

della tua grazia bruna,

del tuo sognar gitano,

del tuo sguardo di buio». 

 

Ma il poeta si confronta anche con i maggiori filosofi del suo tempo cui dedica in Campi di Castiglia una lunga riflessione lirica, intitolata Poema di una giornata: da un lato Unamuno («amarezza / di volere e non potere / mai credere»), dall’altro  Bergson (quest’io che vive e sente / dentro la carne mortale/  impaziente di saltare / i muri del suo cortile»)Il poeta spagnolo cerca la verità nel sogno, nel paesaggio, nell’anima, ma il suo Dio, cercato e mai pienamente trovato, è infine un Dio immanente al mondo, «un Dio che sta e si fa dentro di noi» (Dal mio rifugio, in Campi di Castiglia)

L’introspezione domina anche l’altra sua grande raccolta Campos de Castiglia del 1912, uscita nello stesso anno in cui scomparve prematuramente la giovanissima Leonor sposata pochi anni prima, benché si noti una maggiore tendenza ad andare verso le cose, verso la storia e la natura, a lottare contro il bigottismo della cultura spagnola dell’epoca.

Non c’è però iato fra le due raccolte: «l’ispirazione poetica di Machado ha una sua linea continua, senza dover riscontrare due o addirittura tre trappe in una evoluzione stilistica e spirituale, ponendo per questo nette distinzioni tra le Soledades, i Campos de Castiglia, le Nuevas Canciones» (Claudio Rendina).

Anche nei Campi di Castiglia il paesaggio non è mai un dato prettamente naturalistico. È, o piuttosto si fa, paesaggio interiore:

 

«I pioppi del fiume, che accompagnano

con lo stormire delle foglie secche

il suono d’acqua, quando soffia il vento,

hanno nelle cortecce

iniziali intagliate che son nomi

d’innamorati, cifre che son date.

Oh, pioppi dell’amore che ieri aveste

i vostri rami pieni di usignoli;

pioppi che domani sarete lire ù

del vento profumato a primavera;

pioppi dell’amore accanto all’acqua

che scorre e passa e sogna,

pioppi della sponda del Duero, su via,

con me, il mio cuore vi farà da guida!»

(Campagne di Soria, in Campi di Castiglia). 

 

La vita del poeta si svolge e poeticamente si racchiude tra la nativa solare e malinconica Andalusia, dove «Aprile e la notte e il vino smagliante / cantarono in coro il salmo d’amore» (Fantasia d’una notte d’Aprile) e la Castiglia «mistica e guerriera»,  «terra illustre e triste» (Sulle rive del Duero); tra il chiudersi nel sogno e nella solitudine delle Soledades e la volontà di dialogo con il mondo dei Campi di Castiglia.

Così il poeta descrive se stesso:

 

«La mia infanzia, ricordi in un patio di Siviglia,

e un limpido giardino dove cresce il limone;

la gioventù, vent’anni in terra di Castiglia […]

Mi soffermo a distinguer le voci dagli echi

e ascolto solamente, tra tante voci, una.

Classico o romantico? Non so. Vorrei lasciar

il verso come lascia la spada il capitano:

famosa per la mano virile che l’impugna,

non pregiata per l’arte saputa del fabbro» 

(Ritratto in Campi di Castiglia).

 

Machado, d’altra parte, ben presto «si rende conto che, non solo lui, ma tutta la società a cui egli si rivolge è in crisi», pur serbando «la fede che altri, in epoche future, possano rinnovare se stessi in una nuova società» (Claudio Rendina). Di qui il suo entusiasmo per l’avvento della Repubblica, di cui seguì le sorti. In un breve discorso pubblicato su un giornale di Madrid il 1 maggio 1937, nel pieno della guerra civile, Machado esortava i giovani a fare politica: «perché ogni rivoluzione non è altro che una ribellione di giovani[…]. Gli studenti devono fare politica, altrimenti la politica sarà fatta contro di voi».

La nota che però domina nella sua poesia e nella sua vita è l’amore per la bella terra di Spagna:

 

«io credo

all’anima sottile

di Castiglia, all’incanto

dell’uomo triste che al balcone vedo

sempre struggersi, il pugno sulla guancia»

(Dal mio rifugio).

 

Il suo amore per la terra natia è un amore francescano, fraterno, tenace, spirituale. Machado riesce a cogliere nelle querce «grigioscure», che diritte o ritorte crescono sotto il freddo Guadarrama, quella fermezza e quell’umiltà che giovano a smorzare la vanità e la pompa cortigiana degli uomini.

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