L’antologia di Masters: Meno della poesia e più della prosa

di Sandro Marano

 

«Da ragazzo, Theodore, tu sedevi per lunghe ore

sulla riva del torbido Spoon

con gli occhi sprofondati a fissare l’entrata

della tana del gambero,

in attesa che apparisse, spingendosi avanti,

prima le antenne ondulanti, come fili di fieno,

e subito dopo il corpo, color della steatite,

i suoi occhi gemme nerolucenti.

E ti chiedevi in un’estasi del pensiero

che cosa sapesse, che cosa desiderasse, 

e perché mai vivesse.

Ma poi il tuo sguardo si fermò sugli uomini e sulle donne

che si nascondono nelle tane del destino nelle grandi città,

aspettando che le loro anime uscissero 

così da poter vedere

come vivevano e per che cosa,

e perché continuassero così alacremente a strisciare

lungo la strada sabbiosa dove l’acqua sparisce

quando l’estate svanisce.»

 

Questa poesia di Edgar Lee Masters (1869 – 1950),  intitolata Theodore il poeta, è tratta dall’Antologia di Spoon River, pubblicata nel 1915 e ampliata nelle successive edizioni, che diede al poeta statunitense grande notorietà.  Ma il successo che gli era arriso, così straordinario da indurlo a lasciare la professione di avvocato per dedicarsi alla letteratura, non durò a lungo.  Tutto il resto della sua opera infatti non eguagliò il livello di quell’opera scritta in uno stato di grazia sulla falsariga degli epigrammi latini di Marziale e dell’Antologia palatina.  E Masters visse gli ultimi anni della sua vita in estrema povertà. Come la Hortense Robbins, un personaggio della sua Antologia, sperimentò su di sé, ma ancora in vita, la fugacità del successo:

 

«Il mio nome era ogni giorno sui giornali

[…]

Ora sono qui per fare onore

a Spoon River, accanto alla famiglia da cui discendo.

E a nessuno importa dove cenavo,

o abitavo, o chi ricevevo,

e quante volte passavo le acque a Baden-Baden!»

 

Nell’Antologia di Spoon River con uno stile epigrammatico e lirico-satirico Masters immagina che gli stessi defunti sepolti nel cimitero d’un piccolo paese nel centro degli Stati Uniti raccontino in prima persona la propria vita, le speranze infrante, le viltà, i misfatti, gli amori leciti o proibiti. La sua Antologia è, in effetti, un grandioso affresco dell’esistenza umana, «qualcosa di meno della poesia e di più della prosa», come la definì lui stesso.

E dietro Theodore il poeta (l’unica lirica, oltre quella introduttiva La collina, non scritta in prima persona) si nasconde probabilmente lo stesso poeta, dapprima incuriosito dalla Natura che lo circonda, dalla tana del gambero e dal suo mondo ristretto, poi dagli uomini e dalle donne che si nascondono nelle tane delle grandi città. Theodore il poeta vuole capire la vita degli uomini, che è ben più complessa e travagliata di quella del gambero, segnata com’è dalla fatalità, da scelte che si rivelano sbagliate o illusorie, da calcoli meschini, da invidia, da gelosia e da tutta la vasta gamma delle passioni umane.

 

«Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita.

[…]

E ora so che dobbiamo innalzare la vela

e cogliere i venti del destino

ovunque essi guidino la nave.

Dare un senso alla vita può condurre a follia,

ma una vita senza senso è tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio;

è una barca che anela al mare eppure lo teme»

(da George Gray).

 

Con questa opera, che fu apprezzata anche da Pound, Masters intendeva mettere a nudo la morale puritana ed ipocrita del suo tempo e le contraddizioni della società americana:

 

«Il bottaio deve intendersi di tinozze.
Ma io conoscevo anche la vita,

[…] 

Credete che il vostro occhio spazi su un largo orizzonte, forse,
in realtà state solo guardando l’interno della vostra tinozza.
[…]

Siete sommersi nella vostra tinozza –
tabù e regole e apparenze,
sono le doghe della vostra tinozza.
Spazzatele e rompete l’incantesimo
di credere che la vostra tinozza è la vita,
e che voi conoscete la vita!»

(da Griffy il bottaio)

 

Non manca nelle composizioni nemmeno un cenno ai classici problemi della metafisica, come quello sulla libertà del volere nell’epitaffio umoristico di Roger Heston che ne discuteva con un amico e che incornato a morte dal toro, che aveva rotto il recinto, non riuscì mai a dare una risposta. O come quello sull’immortalità dell’anima, dove rifulge la preziosa conclusione dell’ateo del villaggio:

 

«l’immortalità non è un dono,

l’immortalità è una conquista»

(da L’ateo del villaggio).

 

L’opera di Masters, tradotta in italiano nel marzo del 1943 da Fernanda Pivano e subito incorsa nei rigori della censura, affascinò Fabrizio De Andrè che nel 1971 pubblicò Non al denaro non all’amore né al cielo, un magnifico album che contiene, oltre alla ballata introduttiva La collina, otto composizioni, ispirate ciascuna a un personaggio dell’Antologia di Spoon River e liberamente rimaneggiate per adattarle al canto e alla musica: il giudice, il  blasfemo, l’ottico, il malato di cuore, il medico, il matto, il chimico e il suonatore Jones.  Nell’intervista di Fernanda Pivano, riportata sul retro di copertina dell’album, De Andrè dichiarava: «Avrò avuto diciott’anni quando ho letto Spoon River. Mi era piaciuto, forse perché in quei personaggi trovavo qualcosa di me. Nel disco si parla di vizi e virtù: è chiaro che la virtù mi interessa di meno, perché non va migliorata. Invece il vizio lo si può migliorare: solo così un discorso può essere produttivo».

Se volessimo dedicare al poeta statunitense un epitaffio, non avremmo che l’imbarazzo della scelta. Tra i tanti suoi versi proponiamo questo:

 

«Io vissi ammirando, adorando la terra e il cielo»

(da William Jones).

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