Alberto Manzi: lo scrittore sociale

di Cosimo Rodia

 

Alberto Manzi (1924-1997) appartiene alla schiera dei grandi scrittori degli anni Sessanta e Settanta, solo che di differente, rispetto a Paolini o Martini, ha una tensione più spiccata per l’infanzia, una leggerezza che anticipa la letteratura successiva dal punto di vista dello stile, del linguaggio e della struttura narrativa.

Scrive Grogh, storia di un castoro (1952), una storia avventurosa e tragica di una colonia di castori alle prese con mille difficoltà di ordine naturale: incendi, inondazioni, assalto di bestie feroci, e di ordine umano: la caccia degli uomini a causa delle loro pellicce pregiate. In nuce sono richiamati, sotto mentite spoglie, i temi della socialità, della democrazia, della libertà, della sopravvivenza, della solidarietà, dell’amicizia e della religiosità. Manzi scrive anche, sempre per bambini, Testarossa (1957), una fiaba, in cui un gruppo di ragazzi cerca una principessa. Ma è con Orzowei e La luna nelle baracche che lo scrittore raggiunge risultati ragguardevoli.

Orzowei (1955) è la storia di un ragazzo bianco, Isa-Orzowei, cresciuto in una tribù di Swazi, cioè negri Bantù, nella foresta dell’Africa del Sud, nel territorio dei Boscimani. Un giorno, però, egli è scacciato perché di colore di pelle diverso; braccato dagli uomini della tribù in cui è stato allevato e minacciato dalle insidie delle foreste, Orzowei trova rifugio tra i Boscimani e l’anziano Pao lo accoglie come un figlio.  Poi, dopo tre anni, lo spinge a tornare tra i bianchi. Nel villaggio di uomini bianchi Isa-Orzowei “sceglie” Paulus Von Hunk, che ammira per il coraggio e la schiettezza e che l’accoglie con affetto. Ma anche qui Isa avverte l’ostilità, per le sue origini selvagge; il suo posto è inadeguato in ogni gruppo: con i Bantù perché è bianco; con i bianchi perché è selvaggio. Ritorna dal pacifico Pao, che diventa la guida spirituale del ragazzo. Sentendosi appartenere alle tre razze, il ragazzo, dopo una serie di peripezie, si adopera per ricucire le lotte tribali e riportare la pace. L’ultimo capitolo, il diciassettesimo, apre le porte alla speranza in “una nuova città”, prodromo di un nuovo corso.

Un libro apertamente d’avventura, con incursioni drammatiche nella concretezza dei fatti storici. Il tema del razzismo si allarga, esce da frontiere spesso retoriche e lacrimevoli, per diventare violenza dell’uomo sull’altro uomo. Ci sono i riferimenti reali ai conflitti tribali tristemente noti in Africa come la lotta dei Bantù contro Boscimani e Ottentotti per il possesso di territori di pascolo e di caccia; o, ancora, la guerra di sterminio dei Boeri contro le tribù indigene. Ma l’obiettivo di Manzi va oltre l’orizzonte storico, c’è la proposta, proprio nel capitolo finale, di puntare sulla fratellanza, con l’utopia di ritrovarsi in una casa comune in cui uomini di diverse etnie ricominciano tutti insieme; il romanzo finisce con queste parole: « Entrarono tutti e quattro stretti per mano, nella grande capanna di pietra, tempio del loro amore»[1].

Alberto Manzi, nel 1974, scrive La luna nelle baracche, un romanzo con temi sociali e politici, con riferimento particolare al Sud America; è una storia agganciata alla realtà e come dice Giancane[2], Manzi è interessato più che altro a scrivere ciò che gli “brucia”.

Nel villaggio di Sant’Andrea, in una imprecisata nazione del Sudamerica, alcune decine di famiglie lavorano nell’azienda di don Josè per una paga da fame. Tutti sono consapevoli dello sfruttamento, ciò nonostante piegano la testa. Un giorno un sorvegliante picchia a morte il giovane Lucas; Pedro, l’eroe della storia, inizia a rifiutare la dose giornaliera di foglie di coca, con cui il padrone rende i lavoratori sottomessi. La morte del giovane e i discorsi di Pedro scuotono i lavoratori. La reazione di don Josè è distruggere il villaggio.
Tutti accettano passivamente la decisione, solo Pedro tenta di opporsi senza trovare appoggio nei compagni. Ora, per sopravvivere, Pedro ruba nelle terre del padrone e trova in Felix, un primo seguace. Questi muore in un agguato; nei campi è vietato cantare, ma Pedro canta l’amico con la voce dell’anima e diventa il simbolo dell’ansia di libertà di ogni persona oppressa.

Nella denuncia delle ingiustizie scende in campo anche il parroco don Rodas (come a dire che i prediletti della chiesa sono i poveri); ma i signori, che muovono i fili del potere, lo allontanano.

Dopo un incendio nelle terre di don Josè, il danno ricade sui più poveri, perché il padrone riduce ancora la paga. Pedro tenta di allacciare rapporti con il sindacato di categoria, vi s’iscrive, per essere sostenuto nella causa. Ma i poliziotti, braccio armato dei ricchi, lo picchiano a sangue, senza però spezzarlo “dentro”. Il giovane sospinge la sua gente a lasciare quella terra e cercare un luogo dove essere liberi, ma è arrestato e fucilato; le sue ultime parole sono capitali: « Soltanto se l’uomo rimane solo, non è più uomo»[3]. E la morte di Pedro è il tributo di sangue pagato per aprire la stagione  del riconoscimento dei diritti. La chiusa del libro è straordinaria; nella baracca di Pedro si aggira Marco, il figlio di Felix:

 

«Al chiaror della luna aprì il quaderno che un giorno Pedro gli aveva regalato e con un mozzicone di matita cominciò a scrivere. Lentamente, stentatamente.

La sua ombra man mano che la luna si spostava, ingigantiva, come se volesse dominare tutto il villaggio.

– È il nuovo Pedro – mormorò la gente.

E qualcuno afferrò il suo mozzicone di matita, prese un foglio e, al chiaro della luna, prese a scrivere.

E Marco, a voce alta, sillabava: Yo…atendo….

Il sergente mentre si allontanava con i soldati e le guardie, borbottò:

– Scemi, pensano che con due righe di scrittura impareranno a ragionare… Intanto tu, scriviti il nome di quel ragazzo … bisognerà tenerlo d’occhio.

Già. Ma quanti “Pedro” dovranno sacrificarsi perché l’uomo impari a rispettare l’uomo?»[4].

 

Un romanzo toccante scritto per ragazzi, ma è evidentemente per lettori di ogni età. Il libro contiene un grande anelito di libertà; ed è un atteggiamento concreto contro le ingiustizie. Scrive Giancane: ‹‹Se Orzowei è un primo severo contatto con la realtà dei problemi sociali e psicologici, per cui il razzismo non è più considerato nel binomio uomo bianco-uomo nero ma violenza dell’uomo contro il diverso da sé, La luna nelle baracche rompe gli indugi e affonda il dito nella piaga della sopraffazione, dello sfruttamento, dell’alienazione»[5]. E Manzi continua con il romanzo El loco (1979) il discorso avviato con La luna nelle baracche, mettendo a fuoco i problemi emergenti non solo del Sudamerica, ma anche quelli che provengono da tutte latitudini in cui situazioni di violenza calpestano la dignità dell’uomo. Non è escluso che lo scrittore sia stato sospinto dal vento che cresceva nel secondo dopoguerra, in termini di anelito di umanità, di ventata generale di rivendicazione, di tensione positiva, tesa a conquistare spazi di libertà, col desiderio di ogni uomo di impossessarsi del proprio futuro.

Quella di Manzi è una traccia letteraria di un’alba (dopo le macerie della guerra, dopo l’industrializzazione forzata, col mondo diviso in ricchi e poverissimi), che lumeggia in una dimensione di senso e di forte speranza.

Oggi, forse, quella vis la guardiamo con nostalgia, perché l’orizzonte esistenziale e ideologico è cambiato e la diffusione dei newmedia ha creato nuove sensibilità, nuove illusioni, sopendo o cassando le precedenti.

 

[1] A. Manzi, Orzowei,  Bompiani, Milano 1990,  p. 219.

[2] Cfr. D. Giancane, Alberto Manzi, il fascino dell’infanzia, Fabbri, Milano 1975.

[3] A. Manzi, La luna nelle baracche, Salani, Firenze 1974, p. 147.

[4] Ivi, pp.147-148.

[5] D. Giancane, Introduzione, in A. Manzi, La luna nelle baracche,  cit., p. 7.

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