Lettere dagli Argonauti di Marco I. de Santis, La Vallisa

di Vito Davoli

 

Una “puntata speciale” questo post dal momento che non si tratta certo di una “ultima uscita” quanto piuttosto di uno dei libri che ha il suo posto particolare fra gli scaffali di poesia della mia biblioteca, devo confessarlo! Pubblicato da Marco Ignazio de Santis nel 2007 (La Vallisa, Bari) lo leggo e lo rileggo continuamente già da prima di conoscere personalmente il suo autore e averne il privilegio dell’amicizia personale.

E siccome c’é sempre tempo per pensare a regalare e regalarsi un buon libro, non posso esimermi dal consigliare queste Lettere dagli Argonauti per la prossima ricorrenza che preveda regalie, soprattutto a chi abbia davvero voglia di “annegare” in una poesia così profonda e “pressurizzante” come quella proposta dall’autore in questa silloge. Mutuo l’aggettivo “profondo” da Giorgio Barberi Squarotti che, commentando questa raccolta, parlava di liriche «intensissime, profonde e tese all’estrema verità» in un percorso o, meglio, in un viaggio nel quale l’autore «sa rinnovare mirabilmente le immagini dei miti nella più drammatica attualità».

 

Ne abbiamo fatta di strada, cari amici,

insieme, ma non so dire se gli anni

siano stati benigni con le nostre speranze.

 

E più che il mito, a cui il titolo rimanda così chiaramente, e l’affascinante associazione dei protagonisti con i dedicatari di tante liriche che paiono ribattezzare gli Argonauti con i nomi di un’esperienza spazio-temporale affatto vissuta e contemporanea (già questa, di per sé, meravigliosa e ardimentosa costruzione lirica ed esperienziale, poetica e umana), è in quel complemento d’agente che sembra concentrarsi il senso profondo della silloge: le lettere sono dagli e non degli Argonauti. Gli Argonauti sono in pieno viaggio!

«La mediterraneità – come si legge nella motivazione del Primo Premio Cànepa 2008 – è concepita come categoria esistenziale ed estetica, capace di generare miti o riti antropologicamente vitali» al punto, forse, da non sbagliare nel riuscire a fare della poesia stessa il vello d’oro dell’ambita conquista; ambizione e speranza di guarire ogni ferita che popola il panorama della contemporaneità nella quale l’antico mito è ricalato da de Santis.

 

Io non so di celestiali incanti,

vedo solo le macerie del mondo

dove batte il plettro del tempo 

 

dirà nella poesia Cari amici, non so,  contenuta nella successiva raccolta Dal santuario (Helicon Edizioni, 2014), quasi ideale prosecuzione della temperie lirica e umana degli Argonauti. E ancora un altro complemento d’agente. Anzi, meglio, di luogo. Lettere dagli Argonauti che non a caso si aprono con una appassionata invocazione, una sorta di atto di scuse – quasi come a una moglie negletta e innamorata –  proprio alla poesia-vello con che qui riporto anche in un’inedita traduzione spagnola:

 

Rimorso

Mi disperdo fra articoli e saggi

e, come sempre, maltratto la poesia.

Lei sta seduta lì, in un angolo,

come una moglie negletta e innamorata.

 

Silenziosa, mi fissa con dolcissimi occhi,

viso d’alabastro e pelle profumata,

riandando con lo sguardo

ai giorni dell’amore.

 

O bella mia speranza,

dove fu che ti lasciai,

Per consumarmi la vita

tra vecchie carte

di storie minime e sepolte?

Come fu che ti lasciai

nella gelida bruma

Delle dissolte illusioni?

 

Ora dammi la mano,

e sulle palpebre chiuse

ad alitarmi vieni

le più eteree visioni.

 

Abbracciami, col caldo del tuo corpo,

e sciogli la nebbia fredda del distacco

con petali di fuoco e di luce

e una ghirlanda di sogni

per sempre.

 

Remordimiento  

Entre artículos y ensayos me disipo

y, como siempre, maltrato la poesía.

Está sentada allí, en una esquina,

como una esposa descuidada y enamorada.

 

Con ojos dulces, silenciosa, me mira,

piel profumada y rostro de alabastro,

volviendo la mirada

a los dias del amor.

 

Oh mi esperanza linda,

¿donde fué que te dejé,

para consumir mi vida

entre los viejos papeles

de historias mínimas y enterradas?

¿Como fué que te dejé,

en la bruma congelada

de disueltas ilusiones?

 

Dame tu mano ahora

y en los párpados cerrados

ven y respirame encima

las visiones más etéreas.

 

Abrázame, con el calor de tu cuerpo,

y derrite la niebla fría del desapego

con pétalos de fuego y luz

y una corona de sueños

para siempre.

 

Già Daniele Giancane in una nota critica alla poesia di Marco I. de Santis presente in appendice agli stessi Argonauti (p. 69), sottolineando la pregevole fattura del linguaggio desantisiano come caratteristica precipua di quello che definisce il suo “canto alto”, ne evidenziava una sorta di «rattenuto poetare, giacché il sentimento non si slarga mai fino a divenire retorico o pletorico. Il poeta riesce a far trapelare le emozioni senza annegarvisi ma mantenendo una sorta di “distanziamento” dall’oggetto che entra nel suo mondo». Eppure – sebbene del tutto indiscutibile – non mi pare qui il centro focale di questa poesia. Per dirla con Giancane in sintesi: vero è che «riesce a far trapelare le emozioni senza annegarvisi» ma è altrettanto vero che riesce perfettamente quanto sommessamente a farvi annegare il lettore. E questo è straordinario in quanto a capacità di coinvolgimento di un testo che è – evidentemente – mai impulsivo né di getto ma profondamente meditato, certosino e finemente cesellato grazie anche al ricorso a lemmi ricercati e sempre più spinti alla radice significante della parola quasi ad indagarne nell’origine il significato profondo e recondito, l’ampliamento del senso. È sufficiente anche solo sbirciare la bibliografia dell’autore per rendersi conto di quanto fondamentale sia questo passaggio anche nella traslazione alla composizione lirica.

Quella peculiarità giustamente ravvisata da Giancane già a proposito di Libro Mastro e di tutta la successiva produzione di de Santis, sembra trovare qui (e per ampliamento e progresso anche nel successivo Dal Santuario) più raffinata definizione e una raggiunta “oggettività” di pensiero che, se da un lato garantisce quella “distanza” «dall’oggetto che entra nel suo mondo», dall’altro traduce la lettura in un’esperienza direi quasi fisica, benché discreta e mai invasiva se non nel lento “nulla osta” alla mano “subdola” della Poesia che entra dentro, nello stomaco, sottilmente, costringendo il lettore a tradurre l’oggettivizzazione dell’esercizio intellettuale dell’autore, proiettandola sull’arco temporale delle proprie esperienze e sul segmento spaziale della propria storia.

Ognuno col suo viaggio da affrontare, ciascuno con i mali da curare, propri o condivisi, tutti alla fine risultiamo un po’ Argonauti; tutti aneliamo al vello d’oro. Eppure non è questa poesia per tutti. Non di prorompente immediatezza di fruizione, non ne è completamente priva ma non è qui la sua sfumatura migliore. La ricercatezza del linguaggio, pur declinata in una alta colloquialità, ne esalta la profondità senza alcun vezzeggiante minimalismo di facciata. Ma è necessario non lasciarsi ingannare da quella colloquialità che è materia di un linguaggio al quale accostarsi con armi affilate e bagagli ben assortiti.

È una poesia ricchissima di stimoli ed estremamente raffinata nella discrezione della sollecitazione esperienziale. È altissimo il coinvolgimento a cui viene chiamato e invitato il lettore e non lascia mezze misure di compromesso. Bisogna entrarci e starci per tanto e per bene fra questi versi perché pare che alla sedimentazione della loro genesi debba fare da contrappeso la “devastazione” dell’anima di chi legge.

 

La banderuola

Dente amaro, cuore avvelenato,

sto sulla tolda della terrazza,

in esilio da questo vivere opaco,

risucchiato nel precipizio vesperale,

nel cielo rutilante e lascivo.

 

Cerco un segnale tàntrico, un cenno,

un’illibata delizia o forse

un nottivago indizio d’amore,

che mi ristori un poco

dall’orrore astruso del mondo.

 

Ma quando cala la tela del buio,

cessa ogni moto convulso

nell’affollato teatro della vita

e muore il frastuono del pianeta

nella siderea rapina del vento.

 

Solo allora il mio sguardo si desta

al cigolio inquietante sul tetto

della ruotante banderuola.

 

Sobbalzo, ma poi s’accende la luna

e cedo all’alitare della notte

sulle dolci altane incalcinate.

 

E in questo reciproco scambio d’amorosi sensi si sprigiona la forza trattenuta di una poesia evocativa per vocazione e condivisa per traduzione lirica annullando o, meglio, contestualizzando una esclusività che parrebbe connaturata in questi versi ma che alla fin fine non è che il primo passo verso il più serio degli inviti, la più alta delle lezioni: evitare la rapida superficialità del “mordi e fuggi” a buon prezzo per rimanere nell’osservazione profonda dell’esistente. Fino a farla – non senza sforzo e impegno – propria.

Tanto propria da divenire risorsa e bagaglio necessari per il più importante dei viaggi, alla ricerca di ciò che va messo «a guardia e a difesa delle verità profonde dell’uomo contro l’insensatezza del mondo» (R. Ricchi). Eccoli gli Argonauti di de Santis!

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