I figli degli altri

Regia: Rebecca Zlotowski

Con: V. Efira, R. Zem, C. Mastroianni, M. Perrier, F. Wiseman, H-N- Tabary, Y. Couture, V. Lefebvre

Francia, 2022. Durata: 104’

 

di Italo Spada

 

«È grave non avere figli?» Se lo chiede Rachel, la protagonista del film «I figli degli altri» presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2022; se lo chiede lo spettatore seguendo una storia dei nostri giorni. La risposta ce la dà Rebecca Zlotowski, regista quarantenne nata a Parigi e di origini ebraico-polacche da parte paterna ed ebraico-marocchina da parte materna. Meglio: ne dà due. La prima l’affida a Rachel (sua alter ego?); la seconda la lascia all’interpretazione degli spettatori, dando al termine figli almeno tre valenze: la bambina del suo compagno, la figlia della sorella, un alunno.

Chi è Rachel? Una professoressa quarantenne senza figli che vive e insegna in un liceo di Parigi, ama la vita, la chitarra e il suo lavoro. Tra i suoi alunni c’è anche Dylan, un sedicenne per niente brillante e poco integrato, nei confronti del quale Rachel nutre particolare attenzione. Ha avuto un ex, ma tra coloro che, come lei, si dilettano con la chitarra ha conosciuto Alì e il suo cuore è tornato a battere più in fretta. La simpatia reciproca diventa cortesie, sorrisi, battute, ammiccamenti, sorrisi e… bacio. La fiamma vacilla (ma non più di tanto) quando lei viene a sapere che lui è separato dalla moglie e ha una figlia di 5 anni. Sarebbe un ostacolo non proprio insormontabile, soprattutto oggi quando basta dare un’occhiata tra la cerchia di parenti e amici per vedere quante coppie sono diventate famiglie allargate, ma la conoscenza e la frequentazione della piccola Leila risveglia in Rachel il desiderio della maternità. Vorrebbe anche un figlio tutto suo, ma teme di essere ormai troppo avanti con l’età. Il vecchio ginecologo al quale ricorre (interpretato dal regista Wiseman) le dice che può ancora sperare, ma non deve perdere altro tempo. Con il tacito assenso di Alì, Rachel tenta di dare un fratellino alla figlia d’altri, ma i suoi tentativi sono vani e il “fallimento” sembra diventare disfatta generale quando Alì si riconcilia con la moglie per il bene della bambina, la sorellina minore si ritrova incinta senza volerlo e il consiglio di classe vorrebbe bocciare Dylan per scarso rendimento. Supererà gli ostacoli a piè pari, accettando la corte di un collega e facendo tesoro del consiglio del vecchio ginecologo: «La  vita è lunga».

Un film come questo non è soltanto una storia raccontata, ma un saggio da leggere e rileggere facendo caso anche a quelle che sembrano pagine superflue. Quando si stende una sceneggiatura si è coscienti che, avendo a disposizione solo un’ora e mezza/due ore di tempo, è giocoforza affidare al montaggio il taglio e la cucitura dei tempi e dei luoghi e sfruttare l’eloquenza delle immagini. Non sempre e non da tutti gli spettatori, però, le sfumature vengono colte, come in questo film dove sarebbe opportuno porre l’attenzione almeno su cinque sequenze, solo apparentemente superflue, che chiameremo con i seguenti titoli: la valigia, il disegnino, l’incidente, il taled e l’epilogo.

La valigia. Rachel, Alì e Leila sono in treno e, ad un certo punto, la bambina dice che non vede l’ora di riabbracciare la sua mamma che, di certo, sarà lì ad attenderla. Alì sa che non sarà così e cerca inutilmente di farglielo capire, ma quando i tre arrivano alla stazione Leila comincia a correre e il padre per riprenderla è costretto a lasciare la valigia a terra dicendo a Rachel “portala tu”. Rachel si blocca, si rattrista, ma accetta di trascinare il trolley. Non è una sequenza fuori posto e fa bene la Zlotowski a inserirla proprio quando Rachel è intenzionata a diventare la mamma numero due della bambina. È come se avesse voluto dire (a lei e a noi) che amare significa anche caricarsi dei pesi dell’altro.

Il disegnino. Siamo a casa, Ali e Rachel stanno parlando tra di loro e, ad un certo punto, Leila si intromette. Ha fatto un disegnino e lo vuole regalare a Rachel. Non sappiamo che cosa ha disegnato la bambina, ma notiamo sul volto di Rachel piacere e tristezza, felicità e preoccupazione. Stacco e inquadratura del disegnino: pupazzetti con didascalie: Papà, Mamma, Leila e Rachel. Famiglia allargata, come tante e perché no? Rachel, quando andrà via definitivamente, porterà questo regalino con sé; sarà, però, una foto sbiadita da conservare in un cassetto, non un quadro da appendere alla parete di casa. Come dire: non ciò che è, ma ciò che poteva essere e non è stato.

L’incidente. Traffico impazzito, piove a dirotto e Rachel è in macchina con Leila che, però, si lamenta, sta per vomitare, piange, si toglie la cintura di sicurezza. Rachel è in preda al panico, urla alla bambina di stare tranquilla, riesce a trovare un posticino dove fermare l’auto. Il sollievo dello scampato pericolo dura poco: una terribile tamponata e lo scoppio dell’airbag. Alì le ritrova in ospedale (ma i suoi baci sono tutti per Leila) con piccoli danni e fortunatamente illese. Non è una sequenza fuori posto e lo sapremo dopo un po’, quando verremo a conoscenza della tragedia che ha segnato la vita di Rachel e che, in parte, spiega la sua lunga attesa prima di decidere se e quando diventare mamma: un analogo incidente, con lei bambina e sua madre (moribonda) alla guida.

Il taled è uno scialle che riunisce e copre i fedeli ebrei riuniti nella sinagoga in particolari occasioni solenni. Nel film, l’ebrea Rachel raggiunge la sinagoga due volte e sempre un attimo prima che la cerimonia si concluda. La prima volta riesce appena in tempo a raggiungere suo padre e sua sorella; la seconda volta, invece, deve ricorrere alla benevolenza di una famiglia non sua che, vedendola in difficoltà, si restringe, le fa un po’ di spazio e l’accoglie sotto il taled.  Come non vedere in queste due sequenze la metafora di ciò che sta accadendo alla protagonista con il taled simbolo del tetto sotto cui si riparano famiglie naturali e allargate?

Ultima riflessione sull’epilogo. Il film si chiude con un salto temporale di anni. Rachel è sola e sta consumando una colazione in un bar-ristorante. È lì che la vede Dylan, il suo ex alunno diventato caposala. La raggiunge e le dice che non l’ha mai dimenticata e che ha realizzato il suo sogno di svolgere un lavoro che gli piace solo grazie a lei. Rachel lo ascolta, sorride, lascia il locale, esce per strada, si mischia alla gente.

Non dice niente, ma chi ha dimestichezza con la storia del cinema non può fare a meno di leggere sulle sue labbra la frase che, in “Addio, Mister Chips”, un film di Sam Wood del 1939, il protagonista (Robefrt Donat), vecchio docente in punto di lasciare questo mondo, rivolge al medico che aveva sussurrato “Peccato che non abbia mai avuto dei figli”: «Vi sbagliate, io ne ho avuti, a migliaia, vi dico, sì, a migliaia!» 

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