A Sylvia Plath, 11 febbraio 1963 – 11 febbraio 2023

di Anna Rita Merico

 

Sylvia,

ti guardiamo attraverso scatti fotografici. Tra essi intercorrono universi. Scatti in cui sei in America, prossima al matrimonio con Ted Hughes. Radiosa, mondo in mano, penna negli occhi. Volto della nostra contemporaneità. Pensieri nascosti e densi, risata piena su una sabbia calda in cui mostri fattezze e profilo esplosivo. Sei il doppio di ogni nostro percorso espressivo. Un doppio bacato, autentico, espressivo, ombroso.

I tuoi capelli sempre raccolti o  mossi, folti… cosa accadeva quando erano intrecciati agli elettrodi? Raccontaci l’ossessione del desiderio e le parole che non hai trovato per narrarci quello stare in croce ad una maternità da cui ti sei sentita sbarrato il passo. Famiglia, ruolo, middle class… narraci la tragedia, oggi. Non è più tragedia consumata nelle regge tra principi, aedi e regine. E’ tragedia che ti è sgusciata all’angolo di una morte impastata di sonniferi, nelle nebbie di Londra, all’interno del tanfo del panico mentre Ted si defila dal fallimento incontenibile del vostro passato stare.

Frieda e Nicholas dormono nell’altra camera, la luce bagnata dell’alba è il momento che cerchi per tornare a scrivere, sola come bestia braccata. Dopo l’abbandono di Ted la tua poesia divampa, ribolle. Sei febbricitante dall’estate, siamo a dicembre: decimi di febbre perpetui o danza acuta di parole sotto la pelle, dentro le cellule, nei labirinti del pensiero?

La casa di Fitzroy Road, al 23, a Primrose Hill, attende che tu metta in ordine scatoloni, riponga tende, prepari cena, rimbocchi coperte ma tu stai lì a difenderti dalla solitudine mentre le parole ti sferzano, schiaffeggiandoti da ogni dove. Immobilizzata tra la vernice che hai acquistato per dipingere le pareti della camera dei bambini e la scrittura che ti porta al laccio. Hai ragione: la Bibbia è quella dei Sogni.

Il piccolo Nick dorme ancora, per fortuna. Le mani vanno al manoscritto, legato in una cartellina… moglie esangue dell’ormai famoso Poeta… cosa ci fa una moglie dentro una poeta? Per Ted… beh, un marito può starci dentro un poeta… se solo tu, Sylvia, avessi fatto il tuo dovere di madre, cucita dentro il tuo ruolo. E’ stata questa la tragedia? Senza regge e senza troni. Dentro ad una cucina. Barricata ad una scrivania senza studio, alla ricerca di un ordine che governi la Furia.

Nick arriva è nel suo pigiamino, grida. Frida è nel lettino accanto, frangetta corta e pugni chiusi. Le tue ossa sono sporche di sangue raggrumato, dai tuoi seni le ultime gocce di latte acquoso. Li prendi entrambi sulle gambe insieme al tuo manoscritto da ultimare. Un coltello ti taglia il cuore mentre muta laceri l’aria con lo sguardo.

Eppure è ora che tu riprendi a scrivere in questi mesi di neve, di gelo, di bianco, di corpo sottile e lavato, schiuso alla speranza. Ha accolto, Ted, questa nuova fede che tu hai sentito per te? Il manoscritto con le pagine per Ariel non è giunto a noi come tu ce lo avevi indicato. E’ forse tutta qui, in questo minuto gesto, il senso di una nostra sia pur piccola comprensione?

Ted ha infilato le mani nel dentro del tuo processo creativo sentendosene padrone perché marito. Quella mattina gli avevi portato il manoscritto completo ma lui, per giorni, non lo aveva guardato. Forse non ne aveva percepito la bollente materia di cui era fatto. O, forse, tanto… pensava di conoscere tutto di te…

Hai atteso risposta. Come hai ingannato il tempo dell’attesa attaccata alla corda del giudizio che doveva giungerti da chi ti aveva raschiata? Una poeta estraniata dal mondo. Quale mondo? Quello vuoto della parola dell’intelletto. Ma tu, Sylvia, di quale parola ci dici quando ci additi il mutismo di una natura che non è silenzio ma radice altra di generazione?

Quegli elettrodi che ti hanno colpito nelle viscere del pensiero hanno, forse, colpito gli occhi di ciò che tutti noi, oggi, stiamo cercando?

 

 

 

 

 

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