Il Giornalino di Gian Burrasca e la satira

di Cosimo Rodia

 

Il Giornalino di Gian Burrasca di Vampa, pseudonimo di Luigi Bertelli, è un romanzo sotto forma di diario, pubblicato per la prima volta nel 1912, in 55 puntate su “Il Giornalino della Domenica”

In circa sei mesi, le pagine del giornalino-diario diventano lo spazio in cui il protagonista, Giannino Stoppani, alias Gian Burrasca, con i suoi scherzi apparentemente innocenti ma disastrosi nelle conseguenze, trascrive le sue avventure con piglio ironico, sarcastico e umoristico.

Il capolavoro di Vamba non è, dunque, un semplice diario, perché il testo va al di là della meccanica elencazione dei fatti e circostanze, per aprirsi, come un vero romanzo, ad una storia ampia, con avvenimenti e personaggi che s’intrecciano. Una storia che, seppur scritta tutta in prima persona da un ragazzino di nove anni, rappresenta in modo paradigmatico almeno due blocchi argomentativi tangenti tra loro.

Il primo blocco attiene al vitalismo infantile, al desiderio insondabile e portentoso di avventura, all’irrefrenabile desiderio di sondare e conoscere cose nuove… Potremmo dire una predisposizione naturale a liberarsi dalla corazza e correre liberi verso l’Altrove.

Il secondo blocco attiene alla sfera affettiva e alla moralità, in cui si dà conto dell’inalienabilità degli affetti genitoriali e familiari, della coerenza etica, dell’esempio paradigmatico degli adulti.

Sono due blocchi argomentativi che in un certo senso giustificano sia gli scherzi infantili compiuti per il puro desiderio di farli, collegati al vitalismo proprio dell’età; sia la tensione di Giannino ad aderire al mondo degli adulti, anche se le imprese sono spesso disastrose.

Il romanzo evidentemente è anche altro rispetto alla mera registrazione di monellerie, perché mi sembra una rappresentazione indiretta del percorso di formazione, attraverso il quale, dopo varie esperienze, si compie un passaggio che può farci diventare grandi e consapevoli sul come stare in questo mondo, a cosa credere e come atteggiarci.

Il libro lo dividerei in due momenti. Il primo costituito  dalle sequele di scherzi di Giannino puntualmente riportati sul diario segreto. Il secondo costituito dalla sua breve permanenza in collegio, dove il racconto diventa corale, avvincente, avventuroso, significativo.

Giannino è figlio di una famiglia di commercianti di Firenze, ha un padre severo e tre sorelle: Ida, Virginia e Luisa, in età da marito, la cui occupazione è proprio la ricerca di un buon partito.

Il romanzo inizia con l’annotazione di una serie di scherzi ai danni delle sorelle e dei loro pretendenti; la più audace è la restituzione delle foto agli spasimanti delle sorelle; c’è un passaggio che mostra bene anche lo spirito godereccio del ragazzo: pagina dell’8 ottobre, «Ma quello che mi ha fatto ridere più di tutti è stato Gino Viani quando gli ho dato la sua fotografia dove in fondo era scritto: Ritratto d’un ciuco. Poveretto! Gli son venute le lacrime agli occhi e ha detto con un filo di voce: – La mia vita è spezzata!».

L’elenco degli scherzi di tanto in tanto viene interrotto da qualche bravata avventurosa, la più grossa è certamente quando Giannino decide, per via delle punizioni, di scappare  di casa. Mi sembra che la bravata sia una sorta di opposizione simbolica all’educazione che usa  “il bastone”. Giannino scappa per raggiungere la zia Bettina; ed è una bella avventura salire sul treno, viaggiare nel vagone delle macchine, giungere dalla zia nero come un minatore!

Ed anche dalla zia gli scherzi si susseguono; emblematico è quello di dipingere, aiutato dai figli del vicino, gli animali domestici come fossero felini. La zia lo spedisce a casa senza appello. E a casa gli scherzi si fanno più pesanti: il futuro cognato, l’avvocato Maralli, facendo da bersaglio, rischia di perdere un occhio. Gli scherzi non mancano neanche a scuola (attacca la pece sulla sedia di uno studente; burla un compagno con una scritta irriverente sulle spalle…). Anche i vicini di casa e gli amici di famiglia divengono vittime dell’iperattivo Giannino. Alla signora Olga, giocando con i figli, sottrae un orologio per delle prove da prestigiatore con delle conseguenza incredibili; come anche abbandona la piccola Maria (figlia di amici di famiglia), nel bosco per un gioco fantastico…

Nel frattempo si sposano di nascosto, con rito religioso, Virginia e l’avvocato Maralli, che per essere socialista e futuro deputato non lo rende noto; l’avvenimento viene registrato puntualmente da Giannino. Gli scherzi non hanno fine e dopo la frattura di un braccio, Giannino è mandato a Roma, dal cognato medico Collalto per curarsi. E anche qui ne combina di tutti i colori; alla fine viene rispedito a casa e il padre ha già fatto i preparativi per mandarlo in collegio. Per intercessione dell’avv. Maralli e di Virginia gli viene concesso un ultimo periodo di prova. Presso l’avvocato vive uno zio ricchissimo, il signor Venanzio, ed è a lui che Giannino dice cosa pensano i nipoti e la cameriera e come l’apostrofano. Qui il racconto si carica di valori, storia, ironia e umorismo.

Giannino vicino al vecchio ne combina altre delle sue, al punto che l’avvocato lo allontana e il padre lo spedisce in collegio. E qui inizia la seconda parte del libro che si riempie di novità e d’avventura. Il piccolo Giannino, nonostante la giovane età, entra quasi subito, con dignità, in una setta segreta “Uno per tutti, tutti per uno”, dove si compiono trasgressioni, come ad esempio il fumare. Ma di fronte agli atteggiamenti autoritari dei direttori e alla scoperta del modo in cui vengono cucinati i pasti, inizia una battaglia nell’interesse di tutti i compagni. Il ragazzo discolo diventa un eroe che agisce e patisce per contrapporsi ad un aberrante modus operandi del collegio. Alla fine i responsabili della ribellione vengono cacciati.

Ritorna a casa  oltre a Giannino anche Gigino Balestra, figlio di un pasticciere socialista. Imperversa la campagna elettorale, nella quale è candidato il cognato di Giannino, il socialista avvocato Maralli, a cui il monello, con le sue confidenze, aveva fatto perdere l’eredità del vecchio zio. Maralli quel testamento in campagna elettorale lo volge a proprio vantaggio. Giannino entra in azione quando gli avversari accusano l’avvocato di essere miscredente; mosso da uno spirito di difesa, si oppone agli attacchi degli avversari precisando che suo cognato non può essere nemico dei cattolici in quanto sposato in chiesa ‹‹come tutti i buoni cristiani››.

Gli avversari strumentalizzano la notizia, tanto che l’avvocato Maralli è sconfitto e rovinato per sempre. Giannino finisce in casa di correzione. (Punizione che anziché essere l’ennesima conseguenza delle mascalzonate del ragazzo birbone, sembra l’ennesimo errore educativo degli adulti).

 

Il sovrasenso del giornalino

Il giornalismo di Gian Burrasca è certamente un libro per ragazzi; Vamba già nella prima edizione invita i genitori dei bambini a leggerlo. Ma il semplicismo di alcuni scherzi potrebbe trarci in inganno; infatti, il romanzo ha un robusto sovrasenso e un forte radicamento nelle dinamiche psicologiche e relazionali del bambino. Centrale nel libro, al di là della scorza claunesca, è il fanciullo nel processo difficile di crescita, di adattamento, di interazione con il mondo adulto.

A fianco, poi, sono rappresentati in modo satirico gli aspetti inautentici del mondo esterno, creato dagli adulti, che vengono puntualmente presi di mira e rispetto ai quali il lettore prende automaticamente le distanze. Almeno quattro mi sembrano le direttrici tematiche che emergono dagli argomenti rilevati:

  • il rifiuto dell’autoritarismo educativo, sia esso familiare o scolastico;
  • rifiuto della distinzione tra un principio di realtà e principio di opportunità.
  • adesione alla logica della solidarietà e dell’amicizia.
  • il diritto dell’infanzia allo spazio vitale, ai sogni, alla leggerezza, alla trasparenza della verità, alla lealtà (tema centrale che impasta tutti gli altri).
Allontaniamo lo sguardo, ora, e fissiamo il protagonista, ponendoci subito alcune domande: Gian Burrasca è un ragazzo pestifero da collegio di correzione? È un ragazzo caratteriale e violento? È imprudente e istintivo? Una caratteristica che potremmo rilevare subito è che il monellaccio nel compiere imprese incredibili, come tingere animali, fare il prestigiatore, colpire il cognato a tiro a segno…, conserva una leggerezza tipica di un ragazzo mosso da un vitalismo puro e non frenato da sovrastrutture culturali.

Posti così i termini, allora, il problema non è di monelleria, quanto di una condizione naturale di crescita, animata da tensione ad andare oltre per diversificare le esperienze. Altro che ragazzino con disturbo della personalità! Giannino, tra l’altro, sembra un bambino esuberante perché intellettualmente vivo. Ed è tale perché ipersollecitato; egli infatti ha tre sorelle, ha una casa aperta, ha cognati che portano esperienze e fatti…

La sua intraprendenza potrebbe non derivare da sfacciataggine, ma da una profonda autostima, cresciuta tumultuosamente grazie alle diversificate esperienze che compie. Giannino non è il caratteriale che si muove contro l’adulto per mero gusto oppositivo, ma è un fanciullo capace di prendere decisioni, affermare principi tanto da contrapporsi al mondo dell’adulto. Ecco perché è un eroe (anzi quasi un modello, se non avesse nove anni), per la sua capacità di azione e reazione autonoma.

Giannino critica, con leggerezza, la vita degli adulti, l’ipocrisia e la dedizione al denaro; l’attaccamento dei parenti per la zia Bettina o le cura prestate allo zio Venanzio sono manifestazioni di tante scorciatoie in un mondo dai rapporti umani inesistenti.

Dietro gli scherzi, le sfide, le avventure del bischero impenitente, Luigi Bertelli vuol ironizzare sui vizi e sulle debolezze degli adulti.

 

Il giornalino e la satira tra pareri contrastanti

Il giornalino di Gian Burrasca è un diario, senza che in realtà, dicevamo, lo sia realmente, perché non è spezzettato in episodi a sé stanti, non è quindi un romanzo d’appendice con la struttura chiusa dai singoli capitoli.

Nel diario si susseguono pagine che creano un processo narrativo continuo, da autentico romanzo, in cui il protagonista subisce una metamorfosi, assumendo caratteri velatamente mimetici.   Nella prima parte Gian Burrasca è un disastro; ogni cosa che fa e pensa origina guai, alcune volte in modo deliberato, altre in modo preterintenzionale. C’è nelle sue azioni una innocenza apparente. Ad esempio, per vendicarsi delle sorelle, che a suo giudizio non lo comprenderebbero, scova delle foto di corteggiatori con annotati commenti sarcastici, le restituisce e poi si stupisce quando alla festa da ballo organizzata in casa, non si fanno vedere, anzi restituiscono le foto con disprezzo. L’ingenuità è, evidentemente, apparente e studiata.

Come ironica è l’attribuzione della responsabilità delle sue monellerie. Gian Burrasca spesso si convince che lo sviluppo catastrofico del suo agire è dovuto alla sfortuna che lo perseguita, alla cattiva stella sotto la quale sarebbe nato. Si convince che non riceve il necessario dalla vita e dagli uomini.

Per alcuni critici in Gian Burrasca alberga anche l’insensibilità verso coloro i quali subiscono le sue monellerie; ad esempio, quando ferisce il futuro cognato all’occhio, non c’è pentimento; ovvero, non c’è un pentimento piagnisteo. Ma ragioniamo: che non ci sia, non possiamo che capirlo; la gravità dei gesti e delle sue conseguenze non possono essere analizzati da un bambino di nove anni, violenteremmo la sua leggerezza e ancora il suo residuo egocentrismo.

Che il romanzo sia dalla parte del ragazzo, mi sembra mostrato dal fatto che procedendo nella narrazione, mentre si alternano mascalzonate e punizioni spesso inefficaci, si aprono pagine in cui il bambino pestifero ha ragione contro le convinzioni degli adulti. Paradigmatica mi sembra la visita al cimitero in occasione della festa dei defunti; Gian Burrasca è sgridato perché fa chiasso con alcuni compagni; per tutta risposta, il ragazzino minimizza la sua colpa rispetto a quella dei genitori perché nel luogo ‹‹dove si viene per piangere››, fanno commenti taglienti sulle tombe monumentali di alcuni uomini desiderosi di fare bella figura (2 novembre):

 

«Ecco la cappella della famiglia Rossi della quale discorre tanto la Bice…

– Che lusso! – ha osservato la mamma; – quanto costerà? – Tre o quattro mila di certo! – ha risposto il babbo. – Farebbe meglio a pagare i debiti che hanno!…- ha detto l’Ada.

– Sicuro! – è saltata su a dire  Ada. – Come quella di avere il palco di suo al teatro, e non so come Bice non si vergogni a farcisi vedere, sapendo che suo padre ha dovuto pigliare altri quattrini in prestito dalla banca […].

– Proprio non c’è nulla di sacro per te! – mi ha detto con voce severa. – Anche qui, dove si viene per piangere, trovi il modo di far delle birichinate!…

– Ho fatto il chiasso con Carluccio e Renzo perché son piccino e voglio bene ai miei amici anche al Camposanto, mentre invece ci sono le ragazze grandi che vengono qui a dir male delle loro amiche!».

 

In un certo senso, il Gian Burrasca che mette a nudo le contraddizioni della sua famiglia e più in generale del mondo degli adulti, sembra che apra mimeticamente un nuovo corso nell’atteggiamento del bambino. Ma c’è pure dell’altro. C’è la rappresentazione della tensione tutta umana (e non solo borghese) di tendere al miglioramento della vita sociale attraverso buoni matrimoni. Giannino vive in una famiglia della media borghesia; il padre sollecita apertamente le tre figlie femmine a sposare dei giovani “di belle speranze”.

Qual è il senso di questo invito? Che il mantenimento della vita agiata e il miglioramento sociale si raggiungono anche con un buon matrimonio.

Non era anche questa la morale di tante fiabe secondo cui l’ascesa sociale, il salto di status avveniva con un buon matrimonio?

Nella seconda parte del romanzo, a partire dall’arrivo di Gian Burrasca in collegio, gli scherzi gratuiti si diradano e lasciano il posto ad una ironia tagliente dei costumi e dei modi di pensare.

La strategia dell’autore, interessante e parossistica  per condannare il mondo degli adulti, è far prendere alla lettera a Gian Burrasca  i consigli di onestà e sincerità degli adulti. Le disgrazie non finiscono, ma questa volta servono a svelare le contraddizioni e le maschere degli affaristi e truffaldini. Alcuni esempi.

– Gian Burrasca svela al vecchio zio che gli eredi aspettano che muoia e visto che non muore l’apostrofano in diversi modi….

– Suggerisce ad un cliente di suo cognato avvocato, contrariamente alle leggi della circostanza?, di dire senza indugi la verità ai giudici (siamo nella pagine del 14 gennaio): «In Tribunale i testimoni devono dire la verità, tutta la verità e niente altro che la verità, che sono cose che sanno anche i bambini d’un anno».

– Denuncia al direttore del collegio che la minestra è fatta con acqua riciclata. Poi con acume Giannino scopre pure che l’austero direttore in realtà è maltrattato e vessato dalla moglie, direttrice in seconda, e che i coniugi sono i veri artefici dell’abominevole azione (pagine del 4 febbraio): «Mi giunse solo distintamente questa frase pronunziata con vivacità dalla direttrice:

– Tu sarai sempre un imbecille! Queste carognette mangiano anche troppo bene! Intanto ho fatto un contratto col fattore del marchese Rabbi per trenta quintali di patate…- Con chi parlava la signora Geltrude? L’altra voce che io sentivo era certamente quella di suo marito; ma è impossibile che il signor Stanislao, con quella sua aria rigida di vecchio militare, permettesse alla signora Geltrude di trattarlo a quel modo».

Non mancano, poi, le spruzzate di critica feroce al modo di fare politica; anzi, si potrebbe dire che è la novità in un libro per ragazzi; una denuncia indiretta ma chiara dell’incongruenza tra ciò che si dice in pubblico e ciò che si fa in privato. È il caso di Gigino Balestra, che, applicando la teoria socialista della comunione dei beni propugnata dal padre, svuota tutta la pasticceria, ed è punito finendo in collegio; la conclusione è paradigmatica (9 febbraio): «Il vero torto di noi ragazzi è uno solo: quello di pigliar sul serio le teorie degli uomini… e anche quelle delle donne! In generale accade questo: che i grandi insegnano ai piccini una quantità di cose belle e buone… ma guai se uno dei loro ottimi insegnamenti, nel momento di metterlo in pratica, urta i loro nervi, o i loro calcoli, o i loro interessi!».

La stessa ambivalenza tra il dire e il fare è riproposta con la figura del cognato, il socialista avvocato Maralli, che dopo aver perso l’eredità del suo vecchio zio, strumentalizza il fatto a fini elettorali; ecco di seguito un discorso pomposo a sostegno del Maralli (27 febbraio):

 

‹‹Il nostro candidato, dunque, con la generosità che è una delle prime virtù dell’animo suo, aveva ospitato un suo zio molto malato e molto ricco, straordinariamente ricco, del quale egli sarebbe stato il naturale  erede… se il nostro valoroso compagno non fosse fedele seguace dei nostri principi contro ogni privilegio capitalistico, primo dei quali il diritto di eredità.  Egli  dunque, in ossequio al programma del nostro partito, non solo nulla fece di quel che avrebbe fatto qualunque borghese per persuadere il ricco zio a farlo erede del lauto patrimonio, ma con la predicazione sincera delle proprie idee lo convinse a nominare eredi i poveri della città, i quali oggi appunto in cui avverrà la distribuzione del làscito al nostro Municipio, avranno un aiuto alla loro  grama esistenza».

 

Giannino chiarisce, invece, che il vecchio Venanzio ha lasciato la proprietà alla cameriera e ai poveri, senza essere influenzato da nessuno.

Inoltre smaschera, sempre con la solita formula dell’agire per fare del bene, l’ipocrisia del cognato, rivelando al giornale degli avversari politici, che s’è sposato in chiesa come tutti “i buoni cristiani” (12 marzo):

 

«Onorevole Direzione,

Leggendo l’articolo del numero scorso del suo pregiato giornale il quale è intitolato

“ I nemici della religione”   mi credo in dovere di fare osservare alla S.V. che non è esatto quel che si afferma nel detto articolo dove è scritto che l’avvocato Maralli mio cognato è miscredente, mentre posso garantire che questo è assolutamente falso avendo assistito io in persona al suo matrimonio che fu celebrato nella chiesa di San Sebastiano a Montaguzzo dove si comportò molto divotamente dando prova di essere un buon cristiano al pari di chiunque.                                                                                                                              Giannino Stoppani».

 

Ma la satira continua anche sul piano del costume. La sorella è corteggiata, appunto, dal socialista Maralli, avvocato di buone speranze. Il padre, contrariamente a quanto pensa la madre, è ben contento che una delle sue figlie sposi un avvocato, anche se socialista, che potrebbe finire in Parlamento. Insomma, non manca la denuncia e la riprovazione verso l’arrivismo, l’opportunismo, gli ideologismi di facciata. Sulla stessa linea si potrebbe leggere la pagina di diario dedicata al figlio del pasticciere, che apprende dal padre socialista i principi di fratellanza e di solidarietà; dunque, in occasione della festa del lavoro il ragazzino, prendendo alla lettera quanto propugnato dal padre, offre i pasticcini della sua dispensa ai bambini poveri del suo quartiere. Quando il padre trova la dispensa saccheggiata, punisce il figlio. Come a dire: gli ideali sono una cosa e la realtà un’altra.

Gli adulti ne escono fortemente ironizzati e messi a nudo nel cieco sforzo d’inseguire le proprie ambizioni.

Un libro, quello di Vamba, scritto certamente dalla parte dei ragazzi, anzi dal punto di vista dei ragazzi, dal cui angolo emergono le contraddizioni e le grandi lacune sia nell’approcciarsi al mondo infantile sia nella capacità di essere esemplari nella società.

C’è un bel passaggio che racchiude emblematicamente la difficoltà di rapporto adulto–ragazzo (20 febbraio):

 

« Se andassi anche io in Direzione, a raccontare a mio padre, in faccia al signor Stanislao, tutti i fatti ai quali egli si sarebbe certo guardato bene accennare, da quello della minestra di rigovernatura a quello della seduta spiritica? – Ma l’esperienza, purtroppo, mi avvertiva che i piccini, di fronte ai più  grandi, hanno sempre torto, specialmente quando hanno ragione».

 

E mi sembra che una soluzione, anche se appena accennata, traspaia proprio dalle parole di Giannino quando è riportato a casa, dopo essere stato cacciato dal collegio (20 febbraio):

«Eccoti di ritorno, – disse – ma è un cattivo ritorno. E ormai per te non c’è che la Casa di correzione. Te lo avverto fin d’ora. – Queste parole mi spaventarono; ma la paura mi passò subito perché di lì a poco ero nelle braccia della mamma e di Ada, piangente e felice. Non dimenticherò mai quel momento: e se i babbi sapessero quanto bene fa all’anima dei figlioli il trattarli così affettuosamente piangerebbero anche loro con essi quando c’è l’occasione di farlo, invece di darsi sempre l’aria di tiranni, chè tanto non giova a niente».

 

L’aspetto stilistico del romanzo

Iniziato dunque come libro elencativo di marachelle volontarie e preterintenzionali, il romanzo nella seconda parte si carica di forte accusa nei confronti della morale borghese: bifronte, arrivista, calcolatrice, egoista.

Oggi, a distanza di circa novant’anni, quei vizi credo siano ancora attuali, forse perché sono d’ogni tempo e di ogni luogo.

L’aspetto che rende accattivante il piccolo rivoluzionario Giannino è l’atteggiamento scanzonato e leggero; effetto raggiunto dall’autore attraverso l’uso di numerose figure retoriche, come: l’ironia; l’enfasi (ritornando a casa dopo una serie di birbonate, Giannino dice (17 ottobre): «Tutti erano venuti lì apposta per salutarmi, e non si sentiva dir altro che Giannino qua e Giannino  là… Mi pareva d’essere un soldato reduce dalla guerra, dopo aver vinto una battaglia”)»; paralogismi (come ad esempio, dopo aver dipinto animali domestici, Giannino è punito, infine torna a casa e il cognato gli dà uno scatolone di colori, ed egli (18 ottobre): «Ora dico io: se non avessi avuto l’idea di fare il serraglio delle belve feroci non avrei avuto quella di disegnarlo, e allora questo lavoro non ci sarebbe stato! Dunque, certe scappate, per un ragazzo che si sente nato per far l’artista, son necessarie, e allora perché i parenti son sempre pronti a sgridarlo e a punirlo?»; direi, discorsi apparentemente ineccepibili ma fondamentalmente errati; l’epifonema, caricando emotivamente i segni di cui si serve per esprimerli? a conclusione delle pagine più concitate (ad esempio: il cognato Maralli colpito ad un occhio, guarisce; Giannino conclude la pagina del 5 Novembre: «E pensare che sul principio, a sentire quelli di casa mia, pareva che l’avessi ammazzato!)»; l’antifrase, ovvero dire le cose in modo meno sconcertante e con un forte senso ironico o sarcastico, significando il contrario di quanto espresso dal significato letterale delle parole usate; ad esempio: Giannino per gioco riduce a schiava la piccola Maria, figlia di amici di famiglia; le taglia i capelli e l’abbandona nel bosco. Quando gli adulti apprendono la notizia nel parapiglia generale, il padre si precipita a cercarla e Giannino appunta (22 novembre): «Il babbo si è alzato per andare a prendere una lanterna. Che furia d’andare a cercare quella bambina! Nemmeno fosse stata un oggetto di valore!».

Uno stile che oscilla tra il serio e il faceto, permettendo di fare affermazioni pesanti con la maschera della leggerezza. E nel romanzo, sotto accusa cade tutta l’autorità dei genitori e per estensione anche quella degli adulti. Gian Burrasca diviene un piccolo giudice, la misura, quasi un canone, per mettere a fuoco i limiti degli adulti, specialmente nel trattare i fanciulli; per questo Giannino può scrivere che: «I piccini di fronte ai più grandi, hanno sempre torto, specialmente quando hanno ragione».

Ad una lettura frettolosa Giannino sembra un bambino fittizio, un personaggio forzatamente strumentale per un autore che voleva esprimere precise teorie politiche ed educative.

Senza smantellare l’intenzionalità dell’autore, a me pare che di qualificante ci sia un ragazzo che con la sua esuberanza e purezza denuncia le contraddizioni di un mondo coi paraocchi.

Inoltre mi sembra che emergano le seguenti idee di fondo:

  • i bambini devono essere rispettati;
  • i bambini non sono materiale di scarto;
  • i bambini non bisogna imbrogliarli, non bisogna creare mondi paralleli in cui segregarli (anche solo psicologicamente);
  • non impartire loro una morale bifronte, perché i bambini sono osservatori attentissimi e giudici implacabili degli adulti.
La condanna dell’ipocrisia emerge da medici che curano per denaro; da maestri grettamente autoritari; da politici attenti al tornaconto personale; da preti senza fede nascosti dietro le apparenze.

Vamba scrive che i bambini sono germogli genuini della pianta umana, non ancora concimati da tutte le ipocrisie sociali né potati nelle loro fresche energie da leggi di convivenza e di convenienza, né piegati artificiosamente coi lacci di tutte le limitazioni, di tutte le convenzioni.

Bertelli è dalla parte dell’infanzia con l’occhio rivolto al mondo adulto per cancellare aberrazioni e inautenticità. Mi sembra che alla base ci sia la tensione a salvaguardare i germogli genuini e a condannare quanti si pongono nei confronti dei ragazzi con la supponenza di chi ha ragione perché più forte. A riguardo, esemplificativo è il deprecabile ricatto del signor Stanislao, direttore del collegio, a Barozzo, il presidente della società segreta, perché si ritiri dalla contestazione (8 febbraio):

 

«Ignorava di essere tenuto qui a patti speciali; e io profittando di questo e toccando la corda sensibile della sua dignità gli ho fatto considerare con un discorso molto efficace che egli era tenuto qui quasi per compassione e che perciò aveva, lui più degli altri, il dovere di mostrarsi grato e affezionato a noi e al nostro istituto. A questa rivelazione il Barozzo è rimasto talmente turbato che non ha avuto più parola ed è diventato un pulcino. Dopo la mia reprimenda ha balbettato: “Signor Stanislao, mi perdoni… Capisco ora di non avere qui dentro nessun diritto… e può essere sicuro che non avrò mai né una parola né un atto contro il collegio… Glielo giuro”».

 

Ecco il principio di autorità utilizzato per nascondere mascalzonate, calpestando dignità e sensibilità dei ragazzi.

Forse per questa visione apertamente partigiana, Vamba fu accusato di fomentare tra i giovani l’impertinenza, la sfacciataggine, l’indisciplina, incoraggiando l’insubordinazione.

Siamo ancora lontani dal riconoscimento dei diritti del fanciullo!

 

Il giornalino e l’attualità

Il giornalino di Gian Burrasca ancora oggi è ripubblicato, recensito, studiato e letto. Ha avuto trascrizioni cinematografiche, quella insuperabile rimane Il giornalino di Gian Burrasca di Lina Wertmuller, 1965, con Rita Pavone, Sergio Tofano, Arnaldo Foà; importante, anche se non ha conosciuto la stessa fortuna, è stato il film del 1982 con Alvaro Vitale. Fino alla trascrizione in Musical, nel 2006, al teatro San Babila, con la regia di Bruno Fornasari (e con i testi delle canzoni della Wertmuller).

Luigi Malerba (1927-2008) sul Corriere della sera ha considerato Gian Burrasca inattuale e innocente rispetto alle nostre atrocità, addirittura i suoi scherzi farebbero arrossire di vergogna per l’innocenza. L’abbrutimento è un dato di fatto; la corrazzata mediatica induce a nuove abitudini e scenari: ad esempio, un sedicenne americano ha già assistito in Tv a trentamila morti violente (indagine Università New Mexico)[1]. Una correzione potrebbe venire a questo punto proprio dal vitalismo autentico di Gian Burrasca.

Perché parlare ancora de Il giornalino di Gian Burrasca? Direi, per non perdere l’innocenza; anzi per riproporla e ribadire la contrarietà ad una letteratura per l’infanzia dai doppi opposti: o troppo melodrammatica o troppo violenta; o troppo alta rispetto ai ragazzi o troppo piegata verso di loro.

Oggi noi abbiamo ancora bisogno di libri sani e Gian Burrasca pur nella esuberanza e nell’anticonformismo, ha nel fondo sentimenti buoni, positivi legati all’humanitas: l’amore materno, il rispetto dell’autorità (nonostante i rapporti dialettici), l’amicizia…, che da un po’ di tempo sembrano appannati per il sopraggiungere di una trasmutazione valoriale.

 

 

 

 

[1] Cfr. G. Borgese, in “ Corriere della Sera” del 29 gennaio 1994.

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